Ci sono momenti in cui le parole pesano di più. Oggi, con l’onda grossa che sta travolgendo l’Italia, il suo sistema creditizio, finanziario e imprenditoriale, le famiglie e i lavoratori, la parola più pesante che ci viene in mente è “onorevole”. Un aggettivo che nel nostro paese è il pronome di chi fa il mestiere più bello e difficile di ogni democrazia, cioè la politica. Un aggettivo che è un impegno, non un regalo: l’onore, si sa, bisogna meritarselo ogni volta.
Dovrebbero averlo ormai imparato anche i nostri parlamentari, deputati o senatori che siano. In questi anni, hanno visto la loro credibilità e reputazione scendere perfino sotto i livelli da catastrofe di Tangentopoli. Hanno sentito nuovamente il tintinnare delle manette e delle monetine. Si son visti cucire addosso, senza distinzioni di merito, la scomoda etichetta di “casta”. È fin troppo facile dare tutta la colpa a quel magma informe che prende la definizione di “antipolitica”. Il qualunquismo è un attentato alla liberaldemocrazia che sulle pagine de linkiesta, ogni volta che possiamo, combattiamo. Perché il problema principale – ne siamo certi – non è quanto costa la nostra politica, che pure non è proprio a buon mercato, ma quanto produce e “rende”. La politica italiana tuttavia ha fatto e fa poco per combattere le radici profonde di questa rabbia.
È dalla scorsa estate, infatti, che il nostro paese è stato messo a nudo dai mercati internazionali e dalle istituzioni europee. Nello specchio impietoso dei mercati si riflette un paese indebitato, che cresce meno degli altri, che ha un sistema previdenziale insostenibile, che ha una spesa pubblica elevata e inefficiente, che paga troppe tasse sul lavoro e sull’impresa, e guidato da un sistema politico incapace di governarlo. Un paese che dovrebbe trovare il coraggio delle riforme per il proprio bene – cioè il nostro – e non certo per l’interesse di pochi. Fino a oggi, non abbiamo visto niente di tutto questo e così, a forza di perdere tempo, siamo arrivati perfino all’umiliazione di ricevere dall’Europa una lettera d’istruzioni. Ma anche di fronte alla chiamata più chiara, governo e maggioranza non hanno saputo o voluto tradurre l’emergenza in azione rapida e credibile. La conseguenza massima della “scossa” è stata invece una dichiarazione d’intenti che – come avevamo previsto fin da subito – per i mercati, l’Europa e il Fondo Monetario è diventata semplicemente la conferma che questa Italia non è affidabile. Ma, semmai, solo molto appetibile.
Già, perché arrivati a questo punto non siamo solo una bomba ad orologeria nel cuore dell’Europa e delle economie occidentali, ma anche un boccone che presenta un eccellente rapporto qualità/prezzo. Le nostre banche valgono mediamente meno della metà di un anno fa, e sono ampiamente conquistabili. Come le nostre aziende, in molti casi sane ed eccellenti ma bisognose di una liquidità che nessuno eroga loro a prezzi sostenibili. La nostra argenteria, grande media o piccola che sia, costa insomma poco, e a Francoforte, Londra, Bruxelles e New York – nelle stesse capitali del mondo dove la crisi italiana fa paura – se ne sono accorti ormai in tanti, e sono gli stessi ai quali gli elevatissimi interessi cui l’Italia emette titoli di debito, in queste ore, sembrano una grande opportunità di guadagno.
Proprio perché il mondo vede con chiarezza su quale sentiero stiamo camminando, è inaccettabile ed offensivo che non ce ne si accorga, in modo chiaro e operoso, anche a Roma. Dove a questo punto basterebbe prendere sul serio l’emergenza e le cose da fare per attivarsi: non con un’altra lettera che rappresenti degli intenti ma con un’azione legislativa rapida e netta, che dia corso seriamente alle richieste di Europa e Bce. Per noi, che crediamo alla legittimazione di governo e parlamento ad operare, questa resta la strada maestra. Ma siccome da questi mesi abbiamo imparato anche un po’ di realismo, è indispensabile pensare a un piano b. Se nulla può cambiare, se la leadership di Silvio Berlusconi è arrivata al punto di non ritorno, la maggioranza ne prenda atto. Si ricordi che sta in quel Palazzo in nome di un popolo, che sta qua fuori, e stacchi la spina. Qualunque cosa è meglio di questa agonia.
Un governo tecnico, un governo politico, nuove elezioni immediate con il Porcellum. Qualunque cosa. È un gesto di responsabilità minima, in fondo, quello che chiediamo a un parlamento di “nominati”, del quale abbiamo sempre avuto il rispetto che si deve a chi rappresenta legittimamente il popolo italiano. I cui interessi, oggi, non combaciano più con quelli di chi, ad ogni costo e senza fare nulla, vuole finire la legislatura seduta a cavallo di un paese esausto.