“Ma fra qualche ora, fra un giorno, forse fra tre o cinque o vent’anni, lui sentirà una fitta diversa prendergli il petto o il respiro o l’addome… Si avvierà alle sue cure, cambierà letti negli ospedali, ma saprà sempre, in qualsiasi ora, che tutto sarà inutile, che per lui, finalmente, una buona volta, per grazia di Dio onnipotente, anche per lui e per la sua metaphysical bug, la sua scrittura e i suoi Vondel o Madison, anche per tutti loro è giunto il momento di dirsi addio”.
La carriera letteraria di Pier Vittorio Tondelli si conclude ufficialmente con questa frase. È il finale dolente di “Camere Separate”: un romanzo di transizione, forse di maturazione verso una nuova fase artistica e umana che “Vicky” – come lo chiamavano tutti fin dagli anni giovanili di Correggio – non ebbe mai la fortuna di vivere. Morì pochi mesi dopo, stroncato dall’Aids: il 16 dicembre del 1991, lasciandoci col suo romanzo migliore, almeno a giudizio di chi qui scrive, e col rimpianto di non poter sapere cosa mai sarebbe stata la sua opera, spazzata via nel pieno dei suoi 36 anni.
Tondelli è stato il frutto più maturo degli “immaturi” anni ‘80. Esordì col botto scrivendo Altri Libertini, quando il decennio “da bere” appena iniziava. Raccontò – tra cause e libri ritirati a migliaia dal mercato – quell’Italia di provincia, l’Emilia paranoica di Giovanni Lindo Ferretti e una Bologna non ancora (o mai più?) uscita dal nichilismo del 77 senza esercitare alcuna autocensura. Riprodusse la bestemmia, l’omosessualità che frequentava le dark room, la tossicodipendenza consumata nei vagoni abbandonati, l’autostop dalla Via Emilia puntando su su, fino al Mare del Nord.
Mai una rivendicazione. Mai niente di più che tanti individui raccolti in piccole società. Guccini e gli altri, per Tondelli, erano i cantautori di una generazione, non di una rivolta. La politica una dimensione quasi superflua, certo fastidiosa, se aveva la faccia grigia e l’aria un po’ unta di Cirino Pomicino o usava le insopportabili cantilene che invitavano all’austerity di Enrico Berllinguer: parole insostenibili per chi, con la vita e la parola, testimoniava la convinzione che lusso ed eccesso fossero un diritto, non un accidente o al più una fortuna.
A spulciare negli annali si trova cosa pensavano di lui alcuni compagni di generazione (più o meno) destinato poi a diventare famosi. Massimo D’Alema ad esempio recensiva l’opera di Vicky come profondamente politica, nel rappresentare l’assoluta assenza di politica dai suoi orizzonti. E anche la sua omosessualità celebrata e descritta fin nei dettagli più scandalosi (ancora oggi, figurarsi allora) era solo una rappresentazione dell’io senza limiti: i diritti civili non erano un’opzione, neanche intellettuale. Il diritto e il potere di fare ciò che si voleva erano solo e seplicemente la stessa cosa.
Il cantore di una generazione, di un’epoca se n’è andato vent’anni fa esatti e forse non è un caso. Non la malattia, ma la sincronia dei destini l’ha portato via all’inizio degli anni Novanta: prima che il riflusso scivolasse in una nuova pratica – e retorica – dell’impegno. Prima che Falcone e Borsellino esplosi richiamassero altre generazioni all’indignazione, alla legalità, alla lotta per i diritti. Prima che la Lega si affermasse come sindacato di territorio, la sinistra perdesse il treno e Berlusconi reincarnasse nel Palazzo Romano gli anni Ottanta da lui importati, via etere, nell’hinterland milanese. Prima che gli anni Ottanta, scomparsi con Reagan e la Thatcher, diventassero in Italia una eco lontana e in ritardo, come capita nella provincia da cui veniva Vicky.
E così non sapremo mai cosa sarebbe diventato questo intellettuale di razza strana, anti-accademico e anticonformista, in un’Italia che trombona e pecorona, dopo tutto, è rimasta sempre. Non sapremo mai cosa avrebbe pensato e come avrebbe raccontato questi due decenni che ci consegnano nudi a nessuna meta, e più stanchi al punto di partenza. Il suo diritto al lusso e all’eccesso sbracato e rivendicato in pubblico è ormai sepolto da una nuova normalità fatta di fatiche, di salari bassi, di famiglie anziane e risparmiose pronte sempre a sostenere i figli. Gli allievi autoproclamati di Tondelli sono tanti, ma la sua violenza nel cambiare la lingua italiana chiede un coraggio che è stato sepolto. Il coraggio di vivere solo per scrivere: e poi “finalmente”, “per grazia di Dio onnipotente”, dirsi addio.