Post SilvioLa (piacevole) sensazione di avere un governo che prova a governare

La (piacevole) sensazione di avere un governo che prova a governare

Il rito dei cento giorni sa di scadenza simbolica un po’ abusata. Tanto vale anticiparla di qualche settimana e di fissare un primo bilancio ad adesso. Il governo guidato da Mario Monti è in sella ormai da 75 giorni: pochi per “cambiare l’Italia”, ma abbastanza per farsi un’idea sulla bontà di una scelta e di una fiducia riposta.

Per spiegarlo, forse, è meglio partire da quel che non c’è più. Da quel che sembra incredibilmente lontano, eppure appena quattro mesi fa sembrava lo spietato e interminabile presente. Pensate alle interminabili trattative segrete con tutti gli Scilipoti del regno per garantire una maggioranza a un governo che, peraltro, non governava. Pensate all’infinito fiume di retroscena che ogni giorno venivano pilotati dal palazzo, all’interesse per le notti del Presidente del Consiglio, agli influenti j’accuse della Mussolini nei confronti del complotto euro-massonico. Pensate alla continua richiesta di misure, dettateci come fossero la lista della spesa, da un Germania e da una Francia che, oltre ogni accettabile superiorità aggettiva, ci trattavamo come i maestri fanno con gli allievi meno dotati, e anzi un po’ irrecuperabili.

Pensato a quell’insieme di volti e voci sospese tra il costume e la politica in un indistinto difficilmente separabile: la Carlucci e Italo Bocchino, Renato Brunetta e Michela Vittoria Brambilla, la cerimoniosità di Gianni Letta e le reiterate minacce di addio di Mara Carfagna, i diti medi dell’uomo di governo Umberto Bossi, gli ultimi ricatti di Scajola e dei suoi boys, e così via. In quel contesto, a volte forzato nei suoi tratti di paradosso dai media, ma spesso – soprattutto nell’ultima fase – tragicamente somigliante alla peggiore delle realtà possibili, si finiva col perdere di vista la sostanza, la funzione fondamentale per cui un governo esiste. E cioè governare, tanto più quando una crisi senza precedenti rischia di travolgere l’Italia come vasi di coccio tra vasi di ferro.

Parole come pensioni, mercato del lavoro, federalismo o riforme emergevano ogni tanto come una lingua straniera e che suonava male su una trama che – una volta esaurita l’egemonia della retorica di Tremonti sul governo di Berlusconi – era intessuta di tutt’altri colori e interessi.

Non siamo sospetti, sulle pagine de Linkiesta, di essere acritici sostenitori dell’azione di questo governo. Abbiamo sottolineato fra i primi le anomalie di certe nomine, a cominciare dal caso Malinconico. Abbiamo più volte pungolato ministri di primo piano – da Corrado Passera a Elsa Fornero -, e non smettiamo mai di sottolineare che l’anomalia di un governo non eletto, prima o poi, verrà come un nodo al pettine del popolo sovrano, lasciando dal punto di vista del consenso più anomalie che certezze.

E tuttavia, se appena guardiamo indietro all’epoca appena conclusa, non possiamo non sottolineare il merito di un cambio di passo vero. Adesso, anche con durezza, ci si confronta con le parti sociali sul merito delle scelte da fare: e lo scegliere è l’ingrediente principale della politica. Si riformano le pensioni; si portano avanti pur con titubanze e resistenze le liberalizzazioni; si sbaglia tanto, senz’altro, ma facendo o provando a fare.

Tutto si può rinfacciare a Mario Monti e al suo esecutivo, tranne che non ci stia provando, mettendo in campo idee, teorie, prassi, interessi, come capita da che mondo e mondo. In un paese che ormai guardava ai palazzi della politica morbosamente, convinto dopo decenni di scandali che solo gli scandali dessero la cifra della politica, ci si è trovati costretti a fare i conti con la possibilità che qualcosa, lentamente, cambi.

Anche grazie alla politica dei tecnici che, con buona pace di Giuliano Ferrara, ha dato il suo contributo alla riduzione dello spread e alla risalita della faticosa china della credibilità. Molto c’è da fare e non tutto può essere fatto subito. Né ha senso nascondersi che, limiti strutturali e di volontà politica, questa esperienza di governo lascerà dietro di sé tanti irrisolti, ed anzi è bene invitare il governo a non abbandonarsi al gusto (che forse sta prendendo piede) del consenso e delle interviste televisive un po’ troppo fitte.

Proprio per questo, però, vale la pena di salvaguardare fin da subito un patrimonio di riformismo culturale che è bene tramandare come una legge a chi si proporrà dopo per guidare il Paese: fare qualcosa, in Italia, si può. Basta volerlo. Gli italiani, che proprio stupidi non sono, lo dicono col consenso che attribuiscono, trasversalmente, a un governo che non sta mancando di chiedere loro sacrifici. 

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