«Mi pare che Fornero e Passera abbiano spinto più sulla riforma dei mercati del lavoro che non di quello bancario, e non capisco bene il perché, specie se chiediamo più riforme del lavoro per aumentare gli investimenti». Ne è convinto Gustavo Piga, ordinario di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata. Secondo l’economista il modello danese a cui ha detto di volersi ispirare Monti per cambiare il mercato del lavoro, basato su flessibilità e sussidi, non funzionerebbe, poichè «I sussidi vanno dati a chi occupa e a chi forma i giovani».
Qualche giorno fa il premier Mario Monti ha affermato che l’articolo 18 «frena gli investitori». È d’accordo?
Dipende dall’orizzonte temporale. Sono d’accordo che, in assenza di altre riforme, una riduzione della protezione dei lavoratori potrebbe portare a più investimenti, cioè acquisto di impianti e macchinari da parte delle imprese. Nel lungo termine comunque le imprese si sposteranno via dal lavoro e verso le macchine per evitare questa rigidità e dunque gli investimenti aumentano anche in presenza di rigidità, anzi di più che là dove non ce ne sono.
Ma la questione va posta in un altro modo. Siamo sicuri che è questo il modo giusto per aumentare il livello di investimenti o non ci sono piuttosto maggiori strozzature in altri mercati che, una volta eliminate, rendono meno problematica ed urgente la questione della riforma del mercato del lavoro?
Citando le evidenze di uno studio condotto da alcuni esperti italiani per conto della Banca di Spagna, Lei sostiene un concetto forte: un sistema bancario più liberalizzato ed efficace può essere un’ottima alternativa ad una minore protezione del lavoro. In che senso?
Da un lato è ovvio che mercati finanziari più aperti alla concorrenza riducono le barriere agli investimenti, sia via minori tassi d’interesse che via migliore screening dei progetti delle imprese. Mi pare che Fornero e Passera abbiano spinto più sulla riforma dei mercati del lavoro che non di quello bancario, e non capisco bene il perché, specie se chiediamo più riforme del lavoro per aumentare gli investimenti. Se è tutto qua, allora concentriamoci sulla liberalizzazione del mercato finanziario. Ma c’è di più. Là dove i mercati finanziari sono poco efficienti, sottolinea questo studio, è più grave e dannoso per il Paese liberalizzare il mercato del lavoro perché esistono meno tutele per i disoccupati in caso di difficoltà temporanea dopo aver perso il posto di lavoro. E questo vale anche se introducessimo (e sarebbe a mio avviso un’idea disastrosa) sussidi ai disoccupati.
Quali sono i settori in cui le tutele al lavoro scoraggiano gli investimenti?
Quelli dove c’è bisogno di riallocare più rapidamente i fattori della produzione perché più esposti alle variazioni del ciclo, sia in positivo che in negativo. Tlc, idrico, e trasporto tra questi.
Il problema sono le Fondazioni o le “operazioni di sistema”? O entrambe?
Dal lato dell’offerta, a preoccupare sono gli incredibili intrecci proprietari bancari tra chi invece dovrebbe essere concorrente. Dal lato della domanda di credito, tutela del consumatore e riduzione dei costi per i piccoli imprenditori spiccano come questioni da affrontare, anche secondo l’autorità garante della concorrenza. Nel suddetto studio l’Italia non figura come uno dei Paesi dove il mercato del lavoro è più rigido per via dell’elevato numero di contratti atipici.
Qualche giorno fa Monti ha detto di volersi ispirare al modello danese, dove a basse tutele sul posto di lavoro si affiancano ampi sussidi in caso di licenziamento. In Italia funzionerebbe?
Questo è infatti l’altro aspetto: il problema del mercato del lavoro italiano non è più l’eccessiva protezione ma l’eccessiva “informalità” ovvero l’uscita dal sentiero tutelato e regolato. E questo semplicemente perché la nostra struttura di costi delle imprese quando assumono (amministrativi, regolatori, salariali) non è più in linea con la produttività scarsa dei nostri lavoratori rispetto a quelli tedeschi. E allora si sceglie di andare in nero o totalmente o con il lavoro. D’altro canto solo così si spiega la clamorosa statistica ufficiale sul tasso altissimo di inattività della nostra forza lavoro. La scarsa produttività è anch’essa frutto di ampi divari nella conoscenza (abbiamo poco apprendistato di qualità e laureiamo pochissimi giovani rispetto alla Germania) nonché dello scarso aiuto che diamo alle nostre piccole imprese nel crescere organizzandosi meglio (come si fa in maniera capillare negli Stati Uniti, ad esempio). Cosa c’entra tutto questo con l’art. 18 e la sua rimozione mi sfugge.
I sussidi in caso di licenziamento sarebbero poi una follia per l’Italia. In Spagna essi producono un tasso di disoccupazione finto del 22% così la gente che lavora prende anche il sussidio. Non siamo danesi e va tenuto da conto. La mattina dopo che approviamo il sussidio alla disoccupazione la nostra (non alta a livello europeo) disoccupazione schizzerebbe in alto verso il 20% per cento. Con tanto di risorse pubbliche buttate al vento. A quel punto meglio usare queste risorse per piani di occupazione temporanea per giovani, almeno imparano qualcosa. E se veramente vogliamo aiutare le imprese e l’occupazione, appunto, facciamo sussidi a chi occupa.