La decisione di Bob Zoelick di non presentarsi alla propria successione alla scadenza del suo mandato, in giugno, ha riacceso l’interesse intorno alla governance della Banca Mondiale. Chi succederà all’ex Segretario al Commercio dell’amministrazione Bush, che sarebbe interessato ad occupare l’incarico di Segretario al Tesoro nel caso di un ritorno dei repubblicani alla Casa Bianca dopo le elezioni di novembre? La notorietà dei nomi che circolano, tra cui Hillary Clinton, Bill Gates e Jeffrey Sachs, dimostra l’importanza dell’istituzione di Washington. Lo stesso si può dedurre dal fatto che gli americani, che pure in passato hanno spesso criticato la prassi che riserva agli europei il diritto di nominare il Managing Director del Fondo Monetario Internazionale, non hanno alcuna intenzione di rinunciare a questo privilegio nel caso della Banca Mondiale. Malgrado non manchino i candidati alternativi nei paesi emergenti, in particolare l’indonesiana Sri Mulyani Indrawati, e i Brics abbiano dichiarato l’intenzione di proporre un nome di grande autorevolezza, forse addirittura quello di Lula.
L’istituzione di Washington ha vissuto un momento assai difficile alla metà del primo decennio del secolo. In primo luogo a causa della mediocre presidenza di Paul Wolfowitz, il falco dell’amministrazione Bush costretto alle dimissioni per aver fatto promuovere la propria fidanzata. Poi per la difficoltà nel concedere prestiti ai grandi paesi emergenti, che se da un lato dispongono di maggior capacità per rimborsare la Banca Mondiale, hanno sempre più facile accesso ai mercati finanziari e quindi meno bisogno di ricorrere a crediti agevolati. La Banca si è trovata di conseguenza con un’esposizione relativa sempre maggiore verso i paesi più piccoli e meno sviluppati. Addirittura, nel triennio 2006-08 le erogazioni nette sono state negative, per 10 miliardi di dollari.
Il terzo problema, se così possiamo definirlo, è che le raccomandazioni della Banca sono state oggetto di critiche crescenti. I paesi che più sono cresciuti negli ultimi anni – la Cina soprattutto ma anche il Brasile, l’India e perfino l’Argentina che negli anni 90 era stata allievo quasi ideale nell’adottare le ricette del cosiddetto Washington Consensus – hanno seguito politiche con forte interventismo statale nell’economia. In compenso la Banca è sembrata rigida nel sostenere la necessità di privatizzare, ridurre il peso dell’amministrazione pubblica, rinunciare alla politica industriale, anche quando il vento sembrava cambiare, prima timidamente e poi con maggior decisione a seguito della crisi globale.
La realtà è un po’ più complicata. Intanto perché, proprio nei primi anni 90 quando il Washington Consensus sembrava vivere la sua stagione d’oro, la Banca pubblicò uno studio fondamentale sullo sviluppo in Asia, intitolato per l’appunto The East Asian Miracle, che riconosceva come interventi pubblici per accelerare la crescita possano, se ben calibrati, raggiungere l’obiettivo meglio che il laissez faire. Nel periodo immediatamente successivo fu il turno di Joseph Stiglitz, come capo economista dell’istituzione, di criticare gli eccessi del liberalismo e in particolare di sottolineare il rischio che la Banca correva nelle economie in transizione consigliando l’adozione di politiche di liberalizzazione prima di consolidare le istituzioni che permettono di regolare il mercato. Pur con differenti approcci anche i successori di Stiglitz, in particolare François Bourguignon e Justin Li – primo asiatico a ricoprire l’incarico – hanno ribadito l’importanza di consigliare i paesi sulla base del pragmatismo e non dell’ideologia.
In questo frangente una questione aperta riguarda il ruolo delle politiche industriali. Un rapporto recente della Banca Mondiale, che studia l’esperienza asiatica per identificare opzioni per il Sudafrica, riconosce che il potenziale di determinate misure è tutt’altro che esaurito. Certo, le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio limitano il policy space, il margine di manovra per politiche attive. Ma rimane la possibilità di introdurre politiche “funzionali”, che incoraggino l’accumulazione dei fattori – in particolare nell’istruzione, nella formazione, nelle infrastrutture e nell’organizzazione territoriale della produzione – senza ambire a decidere in quali specifici settori industriali questi debbano essere utilizzati.
Il rapporto è ancora più preciso nell’identificare la necessità di coordinare tali politiche funzionali con misure di sviluppo urbano, dato l’enorme potenziale dell’urbanizzazione nello stimolare le economie di agglomerazione e l’innovazione nelle economie emergenti. Se è velletario pensare che le politiche industriali siano sufficienti per dar vita a distretti industriali, è quasi impossibile immaginare che essi possano nascere e prosperare senza interventi pubblici che spingano le imprese ad addensarsi in determinate località.
Certamente è difficile replicare altrove l’esperienza di paesi come la Corea o la Cina in cui tanto importanti sono stati aspetti specifici come il contesto geopolitico, le pressioni che esso ha generato per accelerare la crescita economica e coagulare tutte le forze vive della società intorno a questo obiettivo, la presenza di una leadership forte e credibile. Ma è significativo che anche in Europa si assista ad un dibattito più maturo intorno alla politica industriale, capace di andare oltre gli aspetti caricaturali – l’incapacità intrinseca dei burocrati di gestire imprese, i rischi della selezione dei vincitori (‘picking winners’) e della cattura di chi deve compiere questa selezione. Philippe Aghion, in particolare, ha mostrato come le sfide dell’avvenire, come la lotta al cambiamento climatico e lo sviluppo di nuovi metodi di produzione meno inquinanti, richiedono investimenti e implicano rischi di fronte ai quali il settore privato da solo non può assolutamente agire.
La Banca Mondiale ha ben chiaro che le grandi economie emergenti hanno bisogno di consigli per disegnare e governare politiche industriali settoriali che siano compatibili con la concorrenza e quindi generatrici di crescita. Come dubitare che anche l’Italia metterà presto in pratica questa filosofia – del resto uno dei paper di Aghion è stato pubblicato da Bruegel, il think-tank di Bruxelles di cui Mario Monti è stato uno dei fondatori.