Altro che fuga dal call center. Dall’inizio dell’anno sono aumentate le richieste di lavoro nel luogo che più di ogni altro, nell’immaginario collettivo, è divenuto simbolo di sfruttamento, precariato e licenziamenti indiscriminati, delocalizzazione – dalla Romania all’Albania – e mega truffe con contributi pubblici. Un mondo che negli ultimi anni è stato raccontato dal regista Paolo Virzì e dalla scrittrice Michela Murgia, solo per citare gli esempi più celebri.
La tendenza è confermata dall’agenzia per il lavoro Randstad Italia, che registra un aumento del 50% delle ricerche legate ai contact center (call center in entrata ed uscita e back office) nel primo trimestre 2012 rispetto allo stesso periodo 2011, molto superiore all’andamento del 2010. All’impennata numerica, altro fenomeno recente, si affianca una maggiore omogeneità geografica: se un anno fa erano Milano, Torino e Roma ad assorbire la maggior parte delle ricerche, nel 2012 il bacino si è allargato anche al Centro e Sud Italia. Anche Gi Group presenta numeri in crescita, anche se meno marcata: +10% dall’inizio dell’anno, con una media mensile in gestione di 1.600 contratti in somministrazione da 3 a 6 mesi (contratto di lavoro subordinato per il quale il lavoratore viene assunto dall’agenzia per il lavoro e mandato all’azienda cliente, ndr) e 360 con il metodo dello staff leasing (lavoratori assunti da Gi Group con contratti a lungo termine). «Il settore del contact center è in crescita anche nel 2012, soprattutto al Sud e nei servizi di assistenza clienti nel settore energetico e delle pay tv, mentre la richiesta è sempre costante nel settore delle comunicazioni», spiega Alessandra Crivello, che lavora nelle risorse umane della divisione contact center di Gi Group.
Come mai? Vincenzo Fortunato, ricercatore presso il dipartimento di Sociologia e scienza politica dell’Università di Reggio Calabria e autore di diverse pubblicazioni sull’organizzazione del lavoro nei call center, spiega a Linkiesta le ragioni di questa tendenza: «Al Sud c’è effettivamente una domanda crescente poiché, in mancanza di alternative sul territorio. Capita che i giovani tra i 26 e i 30 anni entrino nei call center con un’occupazione part time nella quale rischiano di rimanere intrappolati con il passare del tempo». Una recente indagine curata da Fortunato evidenzia anche una notevole disparità tra il profilo-tipo di chi lavora in un contact center in Lombardia, 40enne e un livello d’istruzione medio-basso (il 26,4% degli operatori ha un’età superiore ai 46 anni) e quello calabrese, 25enne e laureato. «Sebbene ci sia un turnover molto elevato, un’occupazione regolare a tempo indeterminato, ad esempio in un’organizzazione strutturata che fornisce servizi inbound (chiamate in entrata, quindi assistenza a clienti, che si differenzia dall’outbound, cioè telemarketing, ndr), sta diventando una possibilità concreta e socialmente accettabile in regioni come la Calabria e la Sicilia». Nella ricerca, che analizza 19 call center per quasi 2mila dipendenti, lo stipendio medio netto varia dai 500 agli 800 euro al mese.
È un modo per “emergere” dal lavoro sommerso, come scrive Fortunato: «La carenza di opportunità lavorative, insieme alle difficoltà economiche, costituiscono le motivazioni più diffuse nel caso dei giovani calabresi e siciliani, laddove le dimensioni della flessibilità e conciliabilità del lavoro con altri impegni assumono un peso maggiore per i giovani del Lazio e della Lombardia». «Quest’anno sono arrivate numerose richieste soprattutto dal Sud Italia, per via delle politiche attive del lavoro per cui le imprese riescono a trovare maggiori sgravi fiscali per andare a investire in determinate aree», osserva ancora Alessandra Crivello.
Per esigenze di flessibilità e per evitare i rischi di dover lavorare in nero senza alcuna garanzia, insomma, il call center è ancora un’opzione valida per molti. Non solo giovani, come si è abituati a pensare: secondo alcune esperienze dirette raccolte da Linkiesta, nell’area di Milano sono in costante aumento i 40-50enni che hanno perso il lavoro e ne cercano uno nei call center. Eppure, soprattutto per quanti cercano un posto di lavoro a tempo indeterminato, il mercato è in contrazione. La fotografia scattata un anno fa (ultimi dati disponibili) dalla Cgil nel quarto “Rapporto sulla dinamica occupazionale dei call center in outsourcing” parla chiaro: si è passati da 75mila a 67mila addetti in un anno, più altri 13mila a rischio nel 2011, dei quali 1.800 in Lombardia, 1.600 in Piemonte, 1.100 nel Lazio, 700 in Abruzzo, 600 in Campania, 1.600 in Calabria, 1.100 in Puglia, e 1.450 in Sicilia.
Intanto, qualche settimana fa è arrivata una buona notizia per i tanti lavoratori autonomi che affollano queste strutture: alla fine dello scorso marzo la Cassazione ha respinto il ricorso della Almaviva Contact (controllata da Atesia, una delle maggiori società europee del settore) a favore di una dipendente che, dal lontano 2001, era stata assunta con contratti a progetto co.co.co. e co.co.pro. per sei anni di fila senza vedersi riconosciuto alcun contratto a tempo indeterminato. Un barlume di speranza per tutti quelli che da inizio 2012 hanno spedito l’application per essere impiegati in un call center, incrociando le dita e maledicendo la sorte.
Twitter: @antoniovanuzzo