Dal liceo classico Berchet sono uscito quasi dieci anni fa (otto, per la precisione). Non moltissimi ma nemmeno pochissimi. Leggendo le polemiche sulla richiesta del preside Innocente Pessina (che ebbi modo di conoscere solo l’ultimo anno) di non mettere voti inferiori al 4 in pagella, mi è capitato di ripensare a quei giorni di liceo.
Premesso che un 3 (o meno) in pagella non l’ho mai avuto, ricordo comunque un rapporto complesso coi voti. Il secondo che presi (il primo fu un 7- in grammatica greca) al ginnasio fu un 3,5 in grammatica italiana. Ottimo viatico per uno che voleva fare il giornalista, e ricordo di aver pensato: “Cominciamo bene…”. Lo stesso anno mi capitò anche un 2 tondo, nel compito di traduzione dall’italiano al latino. Fu una bella fatica recuperare, e alla fine ebbi comunque il debito col 5 (avevo la media del 5,89 e una professoressa poco conciliante). Mio nonno cominciò a prendermi in giro il giorno stesso e ancora oggi ogni tanto me lo rinfaccia. Ricordo che la cosa servì a sdrammatizzare e a farmi capire che un 2 non ha mai ucciso nessuno. Pancia a terra e sudare prima per arrivare al debito col 5, poi per ripararlo a settembre col 6.
Gli anni successivi, pur in un crescendo wagneriano della media, furono comunque costellati di periodici 3, 3,5 o 3/4. Le tagliole più temute erano ovviamente le versioni, dove se imboccavi la strada sbagliata alla seconda parola il resto erano tutti e solo segnacci blu (più gravi di quelli rossi). Paradossalmente il latino finiva per essere più insidioso del greco. Seguendo un insegnamento paterno, col secondo utilizzavo un approccio da parole crociate crittografate: traduzione vocabolo per vocabolo e per i vari katà, epì, upò, anà e amphì non restava che sperare di azzeccare il giusto significato. Il latino invece dietro un’apparente semplicità poteva nascondere i significati più astrusi. Tutti avremmo giurato che Tizio fosse andato al mercato a comprare dei fichi (tutti tranne il secchione, Cassandra inascoltata) e invece alla riconsegna scoprivamo che stava discettando di filosofia con l’anima di un defunto. Ricordo anche degli inesplicabili compiti a crocette di filosofia. A causa di un calcolo sclerotico del punteggio, a un mio compagno capitò di prendere -8, o qualcosa del genere. Gli fu pietosamente alzato dal professore a 2 (recuperabile con un 10, un -8 invece richiede almeno due 10 e due 9 per essere sanato).
Anche i temi, a modo loro, potevano essere infami. Tutta una lunga e documentata dissertazione sulla poetica del padre Dante gettata alle ortiche per una parola scritta in modo errato. Un meraviglioso e curvilineo 8 messo tra parentesi (“per il contenuto”) con sotto un 4 spigoloso e ben marcato (“per la forma”). Così al ginnasio imparai che il Destino tira solo “dardi”, e mai “freccie” (che poi sarebbero frecce); che la conoscenza deriva da cognosco e la coscienza da cum-scire; e che gli accenti della lingua francese sono tali da impedire qualsiasi citazione (salvo dizionario o rapido controllo su google).
I voti bassi (anzi, bassissimi) erano delle mazzate, ma alla fine servirono più che altro a instillarci tanta goliardia, un po’ di sano fatalismo (un 3 non è mai tanto colpa tua quanto delle divinità ostili agli studenti) e la consapevolezza che anche le più amare batoste possono essere rimediate. Con questo non voglio dire che i 3 e i 2 debbano finire anche in pagella. Forse l’appello del preside Pessina non è del tutto campato per aria, anzi. Però l’impressione è che comunque si guardi al dito e non alla luna. Il problema non è il voto in sé, ma come questo viene percepito da studenti e famiglie, e come viene valutato dai professori. Si insegni ai liceali (e ai loro genitori) che un 2 non è una tragedia (greca), anzi può essere uno stimolo e anche uno spunto su cui ridere, e si ricordi agli insegnanti che simili voti possono anche essere dati in modo “esemplare”, ma che non devono entrare nelle medie aritmetiche che determinano la pagella.