Vista da fuori l’Unione europea sembra un’osteria piena di avventori litigiosi, che strepitano e si tirano addosso i boccali. C’è chi non vuole pagare il conto per tutti e chi vuole fare “alla romana”, chi si lamenta dei vicini e chi del servizio. Molti minacciano di andarsene. Ma chi è al freddo fuori dalla porta non vuole altro che poter entrare.
Questo fine settimana andranno al voto la Francia, la Grecia e, a livello locale, la Germania e l’Italia. Tre Stati fondatori dell’Unione europea e uno, la Grecia, che è membro da più di 30 anni. Tutti attraversati da forti spinte euroscettiche. Marine Le Pen o Beppe Grillo, i comunisti greci del Kke o i neonazisti tedeschi del Npd, per ragioni diverse hanno un nemico comune nell’Europa unita. Dal ritorno alla moneta nazionale al ritorno al nazionalismo il passo è breve.
Il 6 maggio vota anche la Serbia. Il presidente democratico Boris Tadic, che corre per il terzo mandato, sfida il conservatore Tomislav Nikolic. Al centro del dibattito la crisi economica che non ha risparmiato il paese balcanico. Per cercare consensi, l’ex presidente ha deciso di utilizzare nel suo comizio conclusivo la carta dell’integrazione europea. «Le prossime elezioni sono un’ulteriore occasione per i cittadini di mostrare che non rinunciano a un futuro migliore e a una Serbia europea», ha detto Tadic. In un’area del continente che meno di 20 anni fa era dilaniata dalla guerra, la promessa di pace e stabilità che porta l’Europa esercita ancora una forte attrazione. Anche queste elezioni ne sono una conferma. Le presidenziali non si sarebbero dovute svolgere contemporaneamente alle legislative e municipali, ma solo a febbraio 2013. Tadic, in calo nei sondaggi, ad aprile decide di dimettersi da presidente e di indire elezioni presidenziali anticipate nella speranza di capitalizzare un recente successo: l’attribuzione alla Serbia dello status di candidato ufficiale all’adesione all’Unionea nel febbraio 2012. Lo stesso Nikolic, fortemente nazionalista, ha potuto mettere in discussione l’adesione della Serbia alla Ue solo sulla questione Kosovo: se il riconoscimento di Pristina verrà posto come condizione (e finora non è accaduto), Nikolic – dovesse essere eletto presidente – direbbe no all’ingresso serbo nella Ue.
(Sotto, il video del comizio di Tadic con le bandiere dell’Unione che sventolano insieme a quelle Serbe)
Accanto alla Serbia altri cinque paesi hanno lo status di candidato all’adesione: Turchia, Macedonia, Croazia, Montenegro e Islanda. La Turchia è una questione a parte, candidata dal 1999 ultimamente ha mostrato un interesse decrescente nei confronti dell’Unione europea e presenta numerosi criticità: dalla questione cipriota al genocidio armeno, dal ritorno dell’Islam nella vita politica alla questione demografica. La Turchia coi suoi 79 milioni di abitanti sarebbe seconda per popolazione, e quindi anche per “peso” del suo voto nel Consiglio, solo alla Germania, che ha 81 milioni e 500mila abitanti circa. Considerato poi che la popolazione turca cresce circa del 1,5% ogni anno, mentre quella tedesca è in lieve decrescita, presto dovrebbe avvenire il sorpasso. Anche l’adesione della Macedonia procede lentamente, rallentata da questioni ancora aperte coi vicini Bulgari e Greci e da un’economia che non riesce a centrare gli obiettivi previsti dalla procedura comunitaria. La Croazia è praticamente già uno Stato dell’Unione, il ventottesimo. Il 22 gennaio 2012 ha approvato il referendum di adesione con il 67,7% dei voti favorevoli e l’ingresso ufficiale dovrebbe avvenire il primo luglio 2013. Sui palazzi del governo già sventola la bandiera blu con le stelle gialle, la stessa che per le strade di alcune capitali europee è stata data alle fiamme.
Il Montenegro, nato nel 2006 dalla scissione dalla Serbia, ha ottenuto lo status di candidato ufficiale nel 2010, ma sono necessari ancora molti sforzi perché l’adesione venga perfezionata. La valuta ufficiale del paese è l’euro, adottato unilateralmente nel 2002 (nel 1999 aveva adottato, sempre unilateralmente, il marco tedesco). L’Islanda potrebbe essere lo Stato più veloce nel completare l’adesione alla Ue, avendo sia un diritto che un’economia in larga parte già compatibili con le regole comunitarie. I problemi maggiori sono legati alla pesca, settore economico fondamentale per il paese, e alla finanza. L’isola scandinava, tradizionalmente euroscettica, ha deciso la svolta in seguito alla gravissima crisi economica del 2008. Il nuovo premier socialista, Jóhanna Sigurðardóttir, ha vinto le elezioni con un programma che oltre all’ingresso nella Ue prevedeva anche l’adozione dell’euro. Il suo predecessore, Geir Hilmar Haarde, unico capo di governo sotto processo in relazione alla crisi economica globale, è stato condannato questo aprile per non aver preso iniziative per assicurare «un’analisi completa e professionale del rischio finanziario da parte dello Stato a fronte della crisi finanziaria», ma è stato assolto dagli altri tre capi d’accusa, più gravi, e non gli è stata inflitta alcuna sanzione.
Oltre a questi, ci sono gli Stati che vorrebbero entrare nell’Unione ma che sono ancora alle fasi preliminari. L’Albania ha presentato ufficialmente domanda di adesione, ma non ha ancora avuto risposta dalla Commissione europea. La Bosnia-Erzegovina ha firmato gli accordi di stabilizzazione e associazione. Il Kosovo, che pure ha adottato unilateralmente l’euro come valuta, vorrebbe fare richiesta per l’ingresso ma sconta il problema del riconoscimento internazionale e dell’opposizione della Serbia. Ancora più indietro Ucraina, Georgia e Armenia, che se sono interessati all’adesione da un lato, dall’altro ancora non hanno i requisiti per avviare le procedure.
La fila fuori dalla porta è lunga. Ma dopo l’allargamento da 15 Stati a 25 l’Unione si è anche dovuta porre il problema della governabilità. In base a una regola non scritta delle relazioni internazionali, all’aumentare dei negoziatori, aumenta il tempo necessario per ogni accordo e diminuisce l’efficacia dell’accordo stesso. I meccanismi di voto del Parlamento europeo e del Consiglio sono stati migliorati con il Trattato di Lisbona, ma ancora non basta. Per superare le pastoie del metodo comunitario (incentrato appunto sulle istituzioni europee) e i veti di singoli Stati, si sta ricorrendo ad accordi intergovernativi come, ad esempio, il Fiscal Compact. Se questo escamotage dovesse funzionare, verrebbe in parte aggirato il problema del metodo decisionale legato all’allargamento. L’Europa a più velocità da eccezione diventerebbe regola. Sempre che, dall’interno dell’osteria, a qualche avventore poco lucido non riesca di dar fuoco a tutto.