I recenti dati pubblicati dall’infografica de Linkiesta “Più cooperative e meno auto: così cambia l’Italia” dimostrano che le uniche attività in crescita nel nostro paese sono quelle che hanno al centro l’impresa cooperativa. E il bellissimo articolo sugli orti comuni, sempre apparso su Linkiesta, conferma quella che è una sensazione che io e Giuseppe De Lucia abbiamo recentemente reso manifesta nel nostro ultimo libro : “La globalizzazione cambia di segno. Il ruolo della cooperazione bancaria”, edito per i bei tipi delle Edizioni di Storia e Letteratura pochi giorni or sono.
La crisi finanziaria continua e si intreccia con la crisi industriale e dei servizi. Naturalmente in Europa la rigidità della moneta unica in presenza di recessione esalta e acuisce tutti i divari: territoriali, di reddito, di consumi, di risparmio, di status sociale. Logica conseguenza di ciò, dato che non esiste un mercato autoregolato, tanto più in un contesto in cui tutti i fattori si muovono salvo uno (la moneta), è il fatto che risulta più difficile per la persona singola acquistare i beni presenti sui mercati imperfetti e ai quali, appunto, la persona non può accedere in forma non associata, individualistica se si trova nella scala bassa del reddito dello status sociale. Di qui l’esplosione della tendenza verso la proprietà collettiva di piccoli gruppi: l’associazione consente di acquisire beni non acquisibili in forma individualistica. Questa è l’essenza della forma cooperativa.
Essa in ogni latitudine e longitudine all’inizio si mescola e si sovrappone con i movimenti sociali. Intere biblioteche, generalmente non lette, stanno a dimostrare che al loro inizio le mobilitazioni collettive tengono insieme l’esistenza sindacale, scioperi improvvisi, financo sabotaggi, e creazione di forme sociali cooperative. Solo in seguito le forme sociali diverranno impresa: la resistenza può essere spezzata, la lotta sindacale concludersi con il contratto, il sabotatore finire in una camera di polizia. Ma la forma cooperativa invece può trasformarsi in impresa cooperativa e non uscire dai mercati imperfetti ma iniziare invece a farvi parte nelle forme e nei modi più vari. Dagli orti comuni, che legalmente cooperative non sono ma sono forme di azione associata, dalle fabbriche recuperate, con tipi di proprietà miste, alle cooperative ereditarie vere e proprie (ossia quelle che nascono dagli operai che acquisiscono in forma legale e cooperativa fabbriche capitalistiche fallite).
In Italia c’è un grande movimento a questo proposito. È sotterraneo, spesso invisibile, e soprattutto ha la lingua tagliata: nessuno parla per e di e con gli attori di questo movimento. Le confederazioni cooperative esistenti – che pure tengono in vita un universo essenziale e mirabile rispetto a quello capitalistico, perché in ogni caso massimizzano occupazione e profitto distribuito anzichè profitto individualistico capitalistico – le grandi confederazioni cooperative bianche, rosse e verdi registrano una sordità sconcertante verso questi fenomeni quando non li combattono in forma decisa perché tagliano loro l’erba sotto i piedi. Sono dirette da un’oligarchia burocratica inefficace e inefficiente e soprattutto subalterna al potere capitalistico. Si pensi al fatto che hanno appena fondato un’unica alleanza cooperativa, superando, dicono, le divisioni ideologiche, ma da questo superamento non è scaturita una sola idea, una sola spinta alla mobilitazione in presenza di una crisi economica spaventosa.
La confederazione bianca, che pure ha dei principi fantastici, se li mettessi in pratica, ha per esempio un presidente che è tale da più di vent’anni. Del resto, si dirà, il cesarismo presidenziale di lungo corso è una caratteristica del mondo cooperativo, io stesso l’ho scritto e giustificato, ma ci sono momenti, come diceva il vecchio Engels, in cui la quantità si trasforma in qualità ed è questo il caso: negativo. Insomma non sembra che l’esistenza di confederazioni possa dare sbocco ideale e pragmatico alle forme cooperative di tipo nuovo che stanno sorgendo in tutta Italia. Certo c’è qualcosa di più profondo che non le questioni personali. Robert Michels nel suo immortale libro su “La sociologia del partito politico” dimostrava – in forma eterna – che sono i partiti “proletari” ad essere più soggetti alle oligarchie burocratiche e parassitarie. E questo perché i proletari, o detto in termini più moderni, i poveri, gli esclusi, più soffocati dalle necessità della vita, sono più soggetti al gregarismo e alla rappresentazione passiva. Oltrechè, naturalmente, alla emancipazione propugnata da quelle stesse oligarchie in un circolo dialettico per nulla contraddittorio. Tutte le organizzazini che invece raccolgono classi sociali piccolo borghesi, quelle che Sturzo chiamava delle mezze maniche, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori etc., sono universalmente meno soggette al dominio oligarchico perché hanno più risorse economiche, sociali, culturali per confrontarsi con esso. Di qui il miglior funzionamento delle associazioni imprenditoriali (si veda in Italia per esempio di Retimpresa) o la cooperazione bancaria che, grazie alla paetecipazione dal basso, resiste da anni ad attacchi alla forma stessa cooperativa che provengono di norma o da Bankitalia o dalla costellazione cosiddetta di centro-sinistra.
Se questo è lo scenario, è necessario lavorare rapidamente – e Linkiesta potrebbe farsene fautrice – per la creazione di una nuova confederazione cooperativa che dia rappresentanza a questa magmatica ma importantissima mobilitazione sociale e collettiva che dimostra la straordinaria vitalità della persona associata dinanzi alla crisi. E sono certo che i dirigenti, non i leader, di questa nuova confederazione ci sono già tutti, basta riunirli a raccolta, e dare voce a chi finora ha avuto la lingua mozzata.