Senza tutele. I piccoli azionisti di Fondiaria-Sai da un decennio sono sacrificati sull’altare degli equilibri sistemici. Nel 2001, quando Mediobanca orchestrò il passaggio de La Fondiaria alla Sai dei Ligresti, un’azione valeva 18 euro. A pochi giorni dalla richiesta da parte del custode giudiziario del 20% di Premafin – la scatola che controlla Fon-Sai – di riconvocare l’assemblea per revocare la delibera dell’aumento di capitale riservato a Unipol, il titolo quota circa 90 centesimi.
In questi due lustri ne sono successe di tutti i colori, dal fallito passaggio al gruppo transalpino Groupama, bloccato proprio dall’obbligo di Opa imposto da Consob, alla complessa fusione a quattro con Unipol, la compagnia assicurativa delle Coop, orchestrata da Piazzetta Cuccia assieme a Unicredit per mettere in sicurezza i propri crediti verso la galassia dell’ingegnere di Paternò. Con una costante: le vendite e le scommesse ribassiste sul titolo. Chi avesse investito mille euro in Fondiaria-Sai nel 2001, oggi si ritroverebbe in tasca 50 euro. Una perdita del 95 per cento. Per fare un termine di paragone, nel 2001 Generali quotava 42 euro e oggi è scesa a 10,42 euro (240 euro su mille investiti nel 2001). Al contrario, Unipol nel 2003, epoca del suo sbarco in Piazza Affari, valeva 4 euro, mentre oggi è salita a 17. Attenzione però: la cifra deriva dal raggruppamento delle azioni ordinarie e privilegiate nel rapporto di una ogni 100 deliberato lo scorso marzo, quindi il loro valore reale sarebbe pari a 17 centesimi.
Qualche settimana fa, il Tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento di Imco e Sinergia, le due holding della famiglia, che hanno lasciato un buco da 400 milioni di euro, mentre risale allo scorso aprile l’iscrizione di Salvatore Ligresti nel registro degli indagati da parte del sostituto procuratore Luigi Orsi per aggiotaggio e ostacolo all’attività di vigilanza. È quest’ultima ipotesi di reato – la Consob ha rilevato che nel periodo compreso fra il 2 novembre 2009 e il 16 settembre 2010 le società che fanno capo ai trust Ever Green e The Heritage, riconducibili alla famiglia, hanno comprato azioni Premafin tutti i giorni, in chiusura di Borsa – assieme alle omissioni nel prospetto del’aumento di capitale, come gli 810 milioni di onere negativo da «rivalutazione del carico residuo delle riserve sinistri del ramo RC Auto» (bilancio 2011), le direttrici sulle quali i piccoli azionisti possono concentrarsi nel promuovere un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o della società.
A livello civilistico l’azione legale potrebbe prendere le mosse dalla denuncia (ex art. 2408 Codice Civile) mossa al collegio sindacale dal fondo Amber Capital, azionista della compagnia all’1,65%, che lo scorso marzo ha evidenziato operazioni con parti correlate, gestioni scorrette e ben 40 milioni regalati a Salvatore Ligresti per fare da consulente in operazioni tra le sue società e la compagnia da lui controllata. Rimane da scegliere lo strumento: una denuncia collettiva o una vera e propria class action.
Marino Bin, ordinario di Diritto Civile all’Università di Torino e legale per conto di Altroconsumo nell’ambito dell’unica class action che ha superato lo scoglio dell’ammissibilità da parte della Corte d’Appello del capoluogo sabaudo – riferita alle commissioni “occulte” di massimo scoperto applicate da Intesa Sanpaolo nei confronti di circa 400mila correntisti – spiega a Linkiesta: «Soltanto i piccoli azionisti (e non i fondi d’investimento azionisti di minoranza, ndr), rappresentati da un’associazione consumerista, possono avviare una class action, ma da un lato bisogna verificare se è possibile un’equiparazione con i “consumatori”, dall’altro è necessario un coordinamento con l’attività istruttoria di Consob e Isvap». L’art. 140-bis del Codice del Consumo, che introduce nel 2010 l’istituto della class action nell’ordinamento italiano, al comma 6 recita infatti:
«All’esito della prima udienza il tribunale decide con ordinanza sull’ammissibilità della domanda, ma può sospendere il giudizio quando sui fatti rilevanti ai fini del decidere è in corso un’istruttoria davanti a un’autorità indipendente ovvero un giudizio davanti al giudice amministrativo».
In generale, la class action tutela tre fattispecie: i diritti contrattuali nei confronti di un’impresa; il corretto funzionamento di un prodotto; e i diritti che rientrano nell’ambito di pratiche commerciali scorrette. Il punto è che, in tutti i casi di cui sopra, i consumatori dovrebbero ritrovarsi in condizioni omogenee. Proprio per questo, nota un avvocato di uno dei più grandi studi legali internazionali con sede a Milano, l’ipotesi più facilmente percorribile sarebbe una denuncia avente come oggetto il prospetto informativo dell’aumento di capitale 2011.
Se da un lato con la class action ha il vantaggio di poter giocare sui grandi numeri, dall’altro è lunga e incerta, dovendo passare una fase di ammissibilità e un successivo procedimento di aggregazione dei consumatori danneggiati. Finora i gruppi consumeristi stanno a dormire. Soltanto l’Adusbef del combattivo Elio Lannutti reiterando esposti alle Procure di Roma e Milano sull’omessa vigilanza di Consob e Isvap e sull’indipendenza di Maurizio Dallocchio, chiamato a valutare le azioni Fon-Sai in Premafin. Più agile e con un esito più sicuro, in questo caso, dare un mandato a un avvocato per intentare una causa collettiva, che prevede un’istruttoria su ogni singola posizione individuale, e non solo sulla “classe” nel suo insieme.
E qui c’è un precedente: nel 2005 il giudice del Tribunale civile di Milano ha riconosciuto alla Promofinan, finanziaria degli ex soci fiorentini del gruppo La Fondiaria, il diritto a un risarcimento di 2,558 euro per ogni azione Fondiaria posseduta all’epoca della fusione, nel 2001, con la Sai dei Ligresti, operazione condotta in virtù di un patto di sindacato non scritto con Mediobanca che prevedeva l’acquisto da Montedison delle quote nell’assicurazione fiorentina. Una sentenza poi ribaltata in Appello nel 2007. Stesso destino per Deminor, società di consulenza che rappresentava gli interessi di circa 200 investitori istituzionali, cui nel 2008 l’ottava sezione civile del Tribunale di Milano ha riconosciuto un risarcimento di 2,38 euro per azione da parte di Mediobanca e Premafin. Iniziativa bocciata in appello e ora in Cassazione. A raccontare le ultime evoluzioni di questa storia giudiziaria è il famigerato prospetto informativo dell’aumento di capitale 2011, esattamente a pagina 354:
«Degli undici provvedimenti decisi dal Tribunale di Milano, quattro sono stati radicalmente riformati dalla Corte d’Appello di Milano che ha integralmente accolto le eccezioni della Società […] Sono ancora pendenti innanzi alla Corte di Appello di Milano sette procedimenti promossi dalla Società e dagli altri convenuti per la riforma di altrettante sentenze emesse dal Tribunale di Milano sfavorevoli per la Società. Innanzi alla Suprema Corte di Cassazione sono al momento pendenti tre giudizi contro altrettante decisioni della Corte di Appello di Milano favorevoli alla Società. La quarta sentenza favorevole alla Società pronunciata dalla Corte milanese per il momento non è stata impugnata in Cassazione dalla controparte».
Fonti interne riferiscono a Linkiesta che Deminor si sta muovendo per sondare l’interesse degli investitori istituzionali, e di aver già ricevuto manifestazioni d’interesse da parte degli azionisti retail. Tocca però rilevare che, dopo dieci anni, nessun risarcimento è entrato nelle tasche dei piccoli risparmiatori. Morale: il “sistema” vende cara la pelle. Organizzarsi per far valere i propri diritti si può, a patto di non aver fretta, magari mettendosi in scia alla Procura.
Twitter: @antoniovanuzzo