«Io non vedo come si possa agire in modo significativo sul fisco senza allentare i vincoli europei». Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica all’Università Cattolica di Milano e direttore del Centro di ricerche economiche sui problemi del lavoro e dell’industria dell’ateneo meneghino, è scettico sulla riduzione del cuneo fiscale per le imprese che valorizzano il capitale umano, idea proposta dal ministro Fornero in Consiglio dei ministri. Sulla riforma del lavoro, Dell’Aringa – lo scorso novembre, quando si stava formando l’esecutivo Monti, era tra i papabili per la poltrona di ministro del Welfare – osserva: «Ritengo un peccato che l’impostazione originale, che distingueva tra flessibilità buona e cattiva – come i lavoratori dipendenti camuffati da lavori autonomi, con meno garanzie assicurative e previdenziali – sia stata abbandonata». Per l’economista, infine, la riforma del lavoro andava integrata con altri aspetti ad essa legati come l’istruzione e le politiche attive.
«Non possiamo semplicemente abbattere il cuneo fiscale per tutti i lavoratori», ha spiegato il ministro Fornero dal palco del Meeting di Rimini, aggiungendo: «Si può pensare a una sperimentazione: le imprese che valorizzano il capitale umano potrebbero avere una sorta di riconoscimento». Un’idea che è stata portata al Consiglio dei ministri di oggi ma sulla quale la copertura finanziaria sembra non esserci. Alla luce di ciò, come interpreta l’idea della Fornero?
Innanzitutto va specificato che la riduzione del cuneo fiscale deve avvenire sia sul versante del lavoratore che delle imprese. Sul versante delle imprese, ovviamente, se il costo del lavoro diminuisce avrà effetti favorevoli sulle assunzioni, e quindi ci sarà uno stimolo ad assumere. È chiaro che, a parità di condizioni e tenuto conto della crisi economica, se si riduce il prelievo fiscale c’è spazio per un aumento della retribuzione netta, e ciò fa si che ci sia uno stimolo anche della popolazione a lavorare di più e investire di più in istruzione. Penso che vadano interpretate in questo senso le parole del ministro. Bisogna però vedere, e questo è un problema non da poco, di quale capitale umano hanno bisogno le aziende, e orientare la formazione dei giovani di conseguenza.
Se i soldi non ci sono, come si finanzia la decontribuzione?
Qui si entra in un discorso politico, dove si manifestano sempre buone intenzioni. Anche Ciaccia ha parlato di riduzione di Iva sulle infrastrutture. I ministri sono ben consapevoli che per rilanciare gli investimenti e la domanda bisogna agire sul fisco, l’inconveniente è che abbiamo un preciso obiettivo di consolidamento fiscale, quindi si ritorna sempre all’origine di tutta la questione: che margini abbiamo? Io non vedo come si possa agire in modo significativo sul fisco senza allentare i vincoli europei.
Carlo dell’Aringa, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano
Il cuneo fiscale non si abbasserà mai?
Quel poco che possono fare i tecnici è cercare di ridurre gli effetti della crisi sul lavoro, ma di certo non risolverli. Bisogna assolutamente evitare che questo livello di disoccupazione diventi strutturale. Oggi le politiche del lavoro devono abbarbicarsi per tamponare questa emorragia, poiché recuperare lavoratori che rimangono fuori dal circuito dell’occupazione per due o tre anni di fila è impossibile. In questo senso la tanto vituperata cassa integrazione, al netto degli abusi, ha fatto da cuscinetto.
Dal primo gennaio, di fatto, aumenterà il cuneo fiscale, grazie all’Aspi da un lato, e all’addizionale dell’1,4% per i contratti a termine dall’altro. Eppure la platea di contratti a tempo indeterminato è maggiore di quella dei precari. Diminuirà la domanda di lavoro?
Ritengo un peccato che l’impostazione originale della riforma, che distingueva tra flessibilità buona e cattiva – come i lavoratori dipendenti camuffati da lavori autonomi, con meno garanzie assicurative e previdenziali – sia stata abbandonata. È dimostrato da moltissimi studi che i lavori sì temporanei, ma con tutte le tutele assicurative e previdenziali, hanno svolto un ruolo di “gradino” verso la stabilità. È meglio avere un lavoro anche di un solo anno, o di sei mesi, ma con tutte le garanzie, tenendo buoni i contratti di somministrazione e l’apprendistato. Il ragionamento secondo cui le imprese devono pagare più contributi sulle forme a tempo determinato allo scopo di organizzare eventuali ammortizzatori sociali sta in piedi, ma potrebbe rivelarsi un boomerang, soprattutto in una fase di recessione.
Se per le aziende aumentano dunque gli oneri sulle forme di lavoro a tempo determinato, non è chiaro se diminuiranno per quelli a tempo indeterminato.
Su questo fronte noto soltanto l’intervento sull’articolo 18, che per quanto sia stato magnificato non non può certo essere considerato come un cambiamento epocale per incentivare imprese. Non mi sembra sia stata fatta una grande riforma, anche perché uno dei grossi ostacoli che la riforma non ha affrontato è l’incertezza dell’esito di un processo, non solo perché le fattispecie sono aumentate ma anche perché i poteri decisionali dei giudici sono aumentati.
Serviva più coraggio?
C’è una cosa che non bisognava fare: creare eccessive aspettative. Forse la Fornero avrebbe fatto meglio a volare più basso, se non altro per calmare gli animi delle rappresentanze sindacali e delle imprese, che essendo in crisi dal punto di vista della base hanno scaricato mediaticamente tutte le loro contraddizioni. Un altro punto è la mancata integrazione della riforma del peso fiscale sul lavoro, e del lavoro in generale, con gli altri aspetti ad essa legati come l’istruzione e le politiche attive. L’economia italiana deve funzionare nel suo complesso, se no non si creano nuovi posti di lavoro e tutti gli interventi saranno soltanto dei palliativi.