Aggiornamento 17 agosto ore 11.34
Anche oggi mani forti stanno acquistando pesantemente il titolo Mediaset, che alle 11.30 segna un rialzo del 3,7% a quota 1,62 euro per azione, +26,6% da un mese a questa parte.
Sceicchi, nuovo amministratore delegato o ricoperture di posizioni speculative al ribasso (“corte”)? Nel dubbio, Mediaset continua a correre: oggi ha chiuso a 1,56 euro (+10,37%), con scambi pari al 4,5% della capitalizzazione. In un mese il titolo ha guadagnato il 18%, più del 30% dallo scorso 25 luglio, quando ha toccato il minimo storico a 1,17 euro. D’altronde, ormai lo sanno anche i muri che dentro il Biscione qualcosa deve cambiare. E in fretta. I conti della prima parte dell’anno sono stati disastrosi, e qualcuno da già per certo un cambio della guardia, a spese di Pier Silvio Berlusconi, attuale vicepresidente. La crisi del Biscione, controllato al 40% dalla Fininvest, riguarda infatti la strategia, la filiera, e in ultima analisi la sua identità prossima ventura, che va riformulata come quella del Pdl.
I numeri. Rispetto ai primi sei mesi del 2011, la débacle al 30 giugno 2012 è stata senza appello. Utile netto meno 73% (da 162,8 a 43,1 milioni di euro), utile per azione in calo da 14 a 0,04 centesimi di euro, ricavi netti consolidati da 2,25 a 1,99 miliardi di euro e un indebitamento che seppure in leggera contrazione – da 1,77 a 1,69 miliardi di euro – rimane comunque elevato, nonostante il deconsolidamento del debito (63 milioni di euro) dell’ex controllata Endemol. La recessione in Italia e Spagna ha pesato non poco sul gruppo di Cologno Monzese, come dimostra la contrazione dei ricavi pubblicitari nei due Paesi, rispettivamente a -11,9 e -11,4 per cento. E la sensazione, a guardare l’audience, che non arretra ma neanche cresce (+0,4% sul 2011 in Italia) e le iniziative come Mediaset Premium (ricavi per 260 milioni di euro, in linea con il 2011), è che ci vogliano nuove idee. Anche perché le uniche soddisfazioni arrivano dalle torri di trasmissione della controllata Elettronica Industriale, i cui margini sono saliti da 5 a ben 24,7 milioni di euro.
Poca cosa. Il modello che prevede l’audience come prodotto da vendere agli investitori mostra i primi segnali di contrazione (vedi pagina 13 della presentazione agli analisti). Gli investimenti delle multinazionali proprietarie dei marchi di largo consumo, come Procter & Gamble, stanno chiedendo alle filiali dei Paesi maturi di stringere i costi e allargare i margini per finanziare lo sviluppo dei Paesi in crescita. Di conseguenza i margini si abbassano, ma il modello di Publitalia, la concessionaria del gruppo Mediaset, non è in crisi. Marco Gambaro, docente di Economia dei media alla Statale di Milano, spiega: «Dal punto di vista pubblicitario i canali Mediaset sono ampiamente leader come raccolta punto di share con 60-80 milioni di euro per punto di share che è quasi il doppio degli altri canali in chiaro (35-40 milioni per punto di share). Sicuramente c’è una riduzione del perimetro, ma nel breve termine non è preoccupante».
Sulle strategie il discorso è diverso. Endemol e Mediaset Premium non sono state due intuizioni sbagliate. «È un mercato difficile (quello dei contenuti a pagamento, ndr), dove in ogni Paese c’è un monopolio, il tentativo di fare i “second player” si è rivelato più difficile del previsto, ma il peso si è visto più sullo stato patrimoniale che sul conto economico», dice Gambaro. Tuttavia, a differenza della Rai, dove i due terzi dei ricavi provengono dal canone, e di Sky, che può contare sugli abbonati, Mediaset può agire soltanto sulla leva dei costi. Un’operazione che si preannuncia meno facile del previsto: i due terzi dei costi delle televisioni sono di palinsesto, peraltro la società non ha grossi costi esterni da tagliare nell’approvvigionamento, quindi è necessario intervenire sul production value, e qui la sfida è avere successo con una fiction che costa un milione di euro invece che due.
Per spiegare come mai Mediaset Premium non funziona c’è un termine inglese: churn rate. Indica la percentuale degli abbonati che disdicono l’abbonamento per approfittare delle offerte più basse pubblicizzate dal medesimo operatore. Secondo un manager di lungo corso, si tratta di un fenomeno europeo, tanto che l’Arpu, altro indicatore che individua la redditività degli abbonati, è sceso per tutte le pay tv. Una recente ricerca della Fondazione Roselli, presentata a fine aprile, ha evidenziato come dal 2004 al 2010 i ricavi di Sky siano cresciuti del 121% dal 2004 al 2010, salendo a quota 1,48 miliardi di euro.
Dando un impulso a tutto il settore, con ricavi provenienti da abbonamenti a offerte pay (e da acquisti di servizi pay per view) saliti nel 2010 a 3,2 miliardi di euro. Sky inoltre ha avuto un impatto sull’economia generale, oltre alla filiera produttiva, pari a 11,7 miliardi di euro dal 2004 al 2011. Significa che per ogni euro investito ha generato 2,1 euro. Lo svantaggio di Mediaset, alla luce di questi dati, sta nel non avere, come Newscorp, una filiera con vocazione all’utente, dove il customer service è la vera cassaforte. Un esempio classico, per spiegare questo gap culturale, riguarda la nascita, negli anni ’80, del grande golf su Canale 5, che non aveva audience ma era stato creato per piazzare la pubblicità della Jaguar. La strategia è da ripensare e bisogna farlo in fretta, dato che molte ricerca stimano che i ricavi da pay tv supereranno quelli della tv tradizionale entro il 2015.
Un’altra incognita è rappresentata dal digitale terrestre. Nella semestrale si legge che la controllata Elettronica Industriale «potrà, entro il 25 maggio 2016, chiedere, sentiti il Ministero e l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, la conversione del diritto d’uso dalla tecnica DVB-H in tecnica DVB-T». Il ministero, lo scorso 28 giugno, ha assegnato a Elettronica Industriale 4 diritti d’uso in tecnica Dvb-T e uno in tecnica Dvb-H per vent’anni, alla faccia dell’annunciato beauty contest, al quale nessun operatore sembra più interessato, visto che la tabella di marcia dell’agenda digitale europea prevede la dello spettro a 700 Mhz entro il 2015 proprio a favore del traffico dati.
Il vero punto dolente del gruppo di Cologno, tuttavia, sta in rete. L’approccio finora conservativo nei confronti del web, a meno di decise aperture a Youtube, sta cogliendo Mediaset impreparata rispetto ai competitor. Per Flavia Barca, direttore dell’Istituto Economia dei Media della Fondazione Rosselli, «il gruppo sta ancora pagando la stagione in cui si è pensato che “the content is king”, quindi la possibilità di porsi come grosso provider di contenuti attraverso Endemol. Ora dovranno necessariamente trovare una forma di accordo con Google. E qui il punto centrale, quando arriveranno in Italia aggregatori senza mediazione stile Netflix, è: quale valore dare al magazzino dei diritti? Sarà questa la chiave di volta per controllare la filiera in Italia?». Il ragionamento coinvolge anche Publitalia: «Nel brevissimo periodo funzionerà ancora, ma il web ha modificato radicalmente le modalità promozionali e avere un grosso presidio sulla televisione tradizionale non sarà più sufficiente». La strada scelta da Samsung, ad esempio, è di vendere già le app sul televisore. Il motivo? Essere presenti nelle piattaforme utilizzate dalle giovani generazioni, rispetto alle quali raccolta è attualmente tutta nelle mani dei grandi aggregatori.