Verona – Sul palco del teatro sale la mascotte. È un sindaco che, con tre anni di meno sulla carta d’identità, potrebbe rottarmarlo. Ma non è solo un simbolo, è un amuleto politico. Federico Vantini, infatti, qualche mese fa ha conquistato un lembo di Veneto leghista e celodurista (il comune di San Giovanni Lupatoto) sotto le insegne del Pd. Da eretico, da outsider. Parlando «il linguaggio di una terra produttiva». Una terra, come spiega il sindaco di Vicenza, Achille Variati, che non è mai stata comunista «perché qui gli operai volevano diventare imprenditori». Ecco, parte con queste premesse la conquista di Matteo Renzi a un centrosinistra dai confini ancora tutti da esplorare. E parte da Verona, cuore del Nord Est, «spaesato e incazzato». Di più. Sfiduciato «dalle promesse del vecchio cerchio magico che ci ha portato solo tasse e niente federalismo», racconta sulle scale del teatro Giovanni Martina, 70 anni, ex dipendente del Comune scaligero, elettore di Tosi ma anche di «Renzi a cui ha mandato una lettera di benvenuto in città: eccola».
Flavio e Matteo, i gemelli diversi. I rottamatori della nomenklatura, ortodossi nei rapporti con l’altra sponda, intenzionati a pescare, nelle rispettive ambizioni politiche, l’uno nel bacino dell’altro. Non a caso il sindaco di Firenze, da sempre bollato come berluschino, scandisce dal palco: «Voglio andare a stanare i delusi del centrodestra, non ci vedo niente di strano». Radio-camper riferisce che tanti sindaci di queste zone sono già pronti a togliersi la camicia verde per indossare quella più cool del rottamatore. Che, non a caso, usa come una clava la propria esperienza di amministratore per dare in testa «alla burocrazia romana, ai signor no dei ministeri, ai capi di gabinetto». Temi che solleticano la pancia e che funzionano molto bene qui, dove il morso della crisi ha lacerato la pelle degli imprenditori. I padroni. Gli stessi che nella vita di tutti i giorni hanno maggiori rapporti con un consigliere comunale piuttosto che con un parlamentare nominato a Roma. «Attenzione, ragazzi, ora non è che dirò Roma ladrona per prendere voti», scherza Renzi in conferenza stampa prima di rimontare sul camper. Ma già questa premessa fa molto capire l’aria che tira.
Ma bisogna entrare dentro, nella pancia dello show, per capire meglio. Valeria e Silvia se vince Bersani non lo voteranno. Ma allo stesso tempo, dall’alto dei loro 35 anni, hanno le idee molto chiare: «È un problema di classe dirigente – spiegano mentre dentro la sala si fanno dare i cartoncini molto americani con la scritta Adesso da alzare a favor di telecamera – ci piace Tosi, ma anche Renzi. Non è una questione dei partiti». Piuttosto di bacino elettorale. L’unica speranza che ha il rottamatore di avere la meglio sulla «burocrazia potente e autorevole del mio partito». Burocrazia, ma forse è meglio chiamarla apparato, che qui al Nord a forza di stare all’opposizione si è sfilacciata. Il presidente della Provincia di Pavia, Daniele Bosone, riflette: «La Lega ormai si è legata, ha perso la sfida dell’autonomia. Ma il Settentrione continua a esprimere una voglia di innovazione, di cambiare rotta». Nei bar che puntellano l’Arena, il gran giro di turisti ricorda a tutti che l’estate non è ancora finita. I soldi continuano a girare. Gli schei sono gli schei.
«Chiamatemi Giano Bifronte: non mi dispiace la Lega e nemmeno il giovanotto toscano, lo voterò. Poi se vincerà, voterò anche il Pd, altrimenti non se ne parla», racconta una signora con cagnolino al seguito. Queste sono le premesse poi viene il discorso dell’aspirante leader. Al di là dello slogan, la parola d’ordine non è proprio adesso. Piuttosto presto. Presto arriverà il programma per vincere le primarie del centrosinistra. Intanto dal palco del teatro La Gran Guardia di Verona – in un tripudio scenografico americano che farebbe impazzire l’amico-nemico romanziere Walter Veltroni – il sindaco di Firenze parte con tre parole. E le ripete fino alla noia: Europa, futuro, merito. In questo triangolo si gioca la sfida generazionale molto pop del rottamatore, oggi meno birichino del solito nei confronti della vecchia nomenklatura, ma sempre caustico con quelli che Grillo chiamerebbe «zombie».
Il programma, invece, quello vero, è già on line e «sarà aperto ai contributi degli elettori: un cantiere aperto». Per il momento si possono pregustare le intenzioni del trentasettenne di Rignano dell’Arno che un giorno, con venti chili in più e vestiti dozzinali, sbancò alla Ruota della Fortuna davanti a Mike. «L’articolo 18? È la coperta di Linus di una certa sinistra. Io rivedrei l’intero statuto dei lavoratori, riducendo il diritto del lavoro a 50 leggi chiare e traducibili in inglese». Vendola si vuole sposare? «Io sono a favore delle partnership come in America». La patrimoniale tanto cara alla sinistra dei Giovani turchi? «C’è già l’Imu».
E poi tanti slogan in un elogio continuo dell’amicizia e della leggerezza (stile Lingotto ante litteram ma senza una mente dietro come quella di Goffredo Bettini) con una convinzione obamiana: «Vogliamo cambiare il destino ai nostri figli». Inutile girarci intorno, il tema è sempre lo stesso: la questione generazionale. «Voglio disegnare con il raggio del nostro compasso i prossimi 25 anni dell’Italia». Il sottinteso retorico è che i precedenti 25 anni hanno visto una classe dirigente «incapace di guardare al futuro».
Da qui l’elenco dei rottamandi che questa volta non vengono pronunciati anche se il candidato in camper manda a dire a Casini: «Con me Merkel si mette a ridere se deve parlare d’Europa? Quando ci andavano a parlare loro, piangevamo noi». Renzi usa tante volte la parola sinistra, senza mai il prefisso centro. Ma si trova più a suo agio quando – americanamente – si rivolge ai democratici. E all’«umiliazione» che hanno dovuto subire quando «gli altri hanno fallito» (mai citato Berlusconi per nome) ma il presidente Napolitano ha dovuto chiamare i tecnici come supplementi. Proprio al governo dei Prof, e quella agenda Monti a cui si ispira anche se oggi non l’ha mai menzionata, manda un altro messaggio: grazie per la credibilità internazionale che ci avete rifatto acquistare, ma adesso tocca a noi. Alla politica. Che si deve occupare delle ambizioni di Teresa, del merito di Carla, del sindaco di Finale Emilia strozzato dalla burocrazia nonostante il terremoto, del capo partigiano Silvano («che non mi voto») e poi dei bambini, e qui torna il nodo gordiano, che «ci guardano con speranza».
Non c’è un pantheon nella narrazione renziana. Piuttosto un linguaggio pop. Buono per attivare quella connessione emotiva con il pubblico che fa del sindaco di Firenze un campioncino con tanto di video bignami con i protagonisti del pianeta dal 1987 a oggi. Il resto sono frustate in libertà. Qualche esempio? «Adesso lo aveva già usato come slogan Franceschini? Sinceramente non me lo ricordavo, qualcosa vorrà dire». Bersani? «Gli dico grazie per il ruolo di dirigente e garante, ma non per le primarie che non sono una concessione in un partito veramente democratico. In compenso mio figlio Francesco mi ha già detto che tifa per lui, ma ha 11 anni quindi speriamo che non cambino le regole più di tanto». Seguono risate e applausi. Come quando viene ricordata la foto romana di ieri davanti al Palazzaccio con i leader della sinistra che depositano i referendum. «Peggio di quella di Vasto, ancora più grigia. Perché ci sono i volti di coloro che hanno fatto sempre cadere il centrosinistra». E cioè quel Romano Prodi da cui Matteo va a prendere messa molto spesso, appena può: nell’ultimo mese tre incontri.
Rimane leggero, troppo leggero, quando è costretto a dire due cose su Alcoa, Sulcis e Ilva per indossare un po’ la giacca dello statista. Così come si spinge soft in una narrazione di un’Europa «diversa da una vecchia zia come è ora» e da una crisi può essere un’opportunità. Particolari? Forse. In sala il pubblico democratico fuori e leghista dentro apprezza. A pochi metri da qui c’è l’Arena. Dove Renzi è appena entrato.