TRIESTE – «Luca te me fa do capo in b e un nero?». Piazza Unità d’Italia, metà mattina. Ai tavolini del Caffè degli Specchi, classe 1839, torme di turisti appena sbarcati dalla gigantesca Msc ormeggiata di fronte al palazzo della Regione Friuli Venezia Giulia. Al banco qualche colletto bianco delle Assicurazioni Generali, gli uffici della sede storica sono a pochi passi. Si accompagnano krapfen, pinza e putizza. Tanto per essere chiari: scordatevi il cornetto, questa è Mitteleuropa.
Come gli innamorati, i triestini hanno il loro vocabolario per chiamare il caffè. «Il capo è il macchiato in tazza, il capo in b è il capo servito in un bicchierino di vetro. Il nero è l’espresso, il gocciato è il ristretto. Il cappuccino? Si chiama caffelatte», spiega Matteo Tuntar, responsabile degli Specchi. «I triestini lo bevono in 20-30 secondi, e si scocciano se non porti anche il biscottino e il bicchiere d’acqua. Il latte poi deve essere a portata di mano», osserva ancora Tuntar.
È per questo che Trieste è un ottimo punto di osservazione per cercare di capire se la crisi europea stia ridefinendo i nostri consumi, intaccando un rito radicato così profondamente nella cultura italiana. Secondo l’Ico (International coffee organization), associazione intergovernativa che riunisce 44 Paesi esportatori e importatori, la domanda degli italiani si è contratta a quota 5,68 kg a persona, livello più basso da sei anni a questa parte. A Trieste se ne beve il doppio, 10 kg l’anno pro capite, e lo si beve dal ‘700. Esattamente dal 1719, quando l’imperatore Carlo VI d’Asburgo concede la patente di Porto Franco, provvedimento grazie al quale la città diventa in breve tempo lo sbocco marittimo per i traffici commerciali dell’impero Austro-Ungarico, accogliendo le navi provenienti da Smirne e da Alessandria d’Egitto. È però l’invenzione della miscela, un secolo dopo, a dare la spinta decisiva, tanto che a fine ‘800 Trieste contava già 66 importatori, 4 aziende per la lavorazione del caffè e una decina di torrefazioni.
Oggi nel Distretto industriale del caffè, riconosciuto da una legge regionale del 2006 e dotatosi nel 2008 di un’Agenzia per lo sviluppo – il Trieste coffee cluster – operano 50 società, che impiegano 900 addetti generando un fatturato annuo aggregato pari a mezzo miliardo di euro. I numeri dell’Ico dicono che, nei primi sei mesi del 2012 sono stati sdoganati a Trieste 60,4 milioni di chili di caffè verde (+5% sul periodo gennaio-giugno 2011), ovvero il 26,5% del totale nazionale. Un primato che, per quanto influenzabile da dove decidono di sdoganare giganti come Lavazza (47% del mercato italiano) e Pacorini, deriva dalla crescente importanza di Vietnam e Indonesia, ormai secondo e terzo produttore mondiale dietro al Brasile. Il 30% dell’import, inoltre, è destinato alla riesportazione una volta lavorato.
Sebbene le navi provenienti dall’Asia via Suez impieghino cinque settimane rispetto alle tre del Sudamerica, Trieste rimane il primo porto europeo mediterraneo per il caffè. Anche grazie al suo status di porto franco, ribadito dall’Allegato VIII del Trattato di Parigi del 1947, che all’art. 5 comma 2 stabilisce: «In relazione all’importazione o esportazione o transito nel Porto Libero, le autorità del Territorio Libero non possono pretendere su tali merci dazi o pagamenti altri che quelli derivanti dai servizi resi». Status confermato lo scorso marzo da Algirdas Semeta, eurocommissario alla Tassazione e all’Unione doganale.
Guido Valenzin, numero uno di Tergestea, è un cultore della materia, e non potrebbe essere altrimenti: di mestiere fa lo spedizioniere, come suo padre e suo nonno prima di lui. Una storia piuttosto comune in città. Tergestea, fatturato annuo pari a una decina di milioni di euro, si trova a due passi dalla piazza della vecchia Borsa, dove una volta si faceva il prezzo del caffè e delle assicurazioni sui carichi, mentre oggi i giovani ci vanno a bere l’aperitivo. Porte di legno scuro, moquette rosso acceso. Sulle pareti, vicino alle foto color seppia degli inizi, la celeberrima massima di John Ruskin sull’equo compenso: “È imprudente pagare troppo, ma peggio è pagare troppo poco”. Una bottega, pur dotata di macchinari sofisticati, che ne ha viste di ogni dal 1939 a oggi. «Lo spedizioniere si prende cura della merce, dal container al cliente finale, solitamente un trader o un torrefattore. Noi offriamo tutti i servizi logistici che stanno in mezzo al percorso dal paese di origine del caffè a destino: dal trasporto in partnership con fornitori locali, al pagamento del nolo, alle operazioni di carico e scarico, alla gestione del magazzino», spiega Valenzin, che siede nel Comitato portuale e presiede l’Associazione spedizionieri del porto di Trieste.
«Essendo un prodotto agricolo, il caffè non rispetta standard prestabiliti a priori – osserva Valenzin – per questo ci occupiamo anche di controllo qualità, selezionanando ogni singolo chicco, pulendo la merce da corpi estranei come sassolini o pezzi di legno ed eliminando i chicchi neri ed altre impurità; un solo chicco detto “stinker” può rovinare un’intera “cotta” (il caffè torrefatto, ndr)». Operazione che avviene prima di due analisi (di cui una fitosanitaria) e di qualità sui carichi prima di spedirli a destinazione. Una volta pulito e selezionato, il valore del caffè sale in base a un punteggio inversamente proporzionale al numero dei “difetti” rimasti, le caratteristiche fisiche dei grani e gli eventuali residui sfuggiti alle macchine. Il prezzo, e i margini per chi offre il servizio, variano di conseguenza.
Da qui in poi entrano in campo i crudisti, cioè i trader di caffè verde (i chicchi non tostati, ndr). Vincenzo Sandalj, proprietario della Sandalj Trading Company, è uno di loro. Un’altra storia di imprenditoria famigliare: import per 12mila tonnellate l’anno, 30 milioni di euro di fatturato. Dal suo ufficio in legno scuro affacciato sull’elegante via Rossini, il “canal grande” di Trieste, Sandalj seleziona e importa caffè crudo, per poi rivenderlo a un migliaio di clienti, metà in Italia e metà tra Russia, Australia e Giappone. La sua è una posizione “di cerniera” tra domanda e offerta, e dunque sensibile, di riflesso, alla volatilità dei prezzi.
Il “canal grande” di Trieste (Foto A.V.)
A New York i futures sull’arabica – la qualità più pregiata – con consegna a dicembre, hanno lasciato sul terreno il 43% da un anno a questa parte, a quota 1,84 dollari a libbra. La qualità robusta con consegna a novembre, scambiata a Londra, oggi vale a 2,2 dollari a libbra (+14% in un anno). «Nelle quotazioni del caffè c’è una grossa componente speculativa, data dal fatto che le commodities sono ormai parte integrante di qualsiasi strategia d’investimento. L’anno scorso, quando sul mercato c’era carenza di arabica, l’80% della liquidità era originato dai fondi hedge, che hanno avuto un’influenza devastante sui prezzi (l’arabica a New York ha raggiunto i 3 dollari a libbra lo scorso aprile) e sulla volatilità», osserva Sandalj, che aggiunge: «In generale a considerazioni finanziarie si affiancano riflessioni macroeconomiche. Se in Cina rallentano gli ordini crollano le quotazioni anche se Pechino non è tra i principali mercati per il caffè. Allo stesso modo le aspettative inflazionistiche delle banche centrali alzano il prezzo, sebbene i consumi siano anelastici».
In altri termini la finanza è un acceleratore, ma il prezzo finale dipende da moltissime variabili, dal clima alla disponibilità delle portacontainer nei porti dei Paesi produttori. «Il nostro prezzo al cliente è una media del mercato degli ultimi 15 giorni, aggiorniamo i listini una volta alla settimana cercando di ammortizzare i rialzi e i ribassi», dice Sandalj, che continua: «Il magazzino, invece, viene deciso in base alle vendite, mediamente la durata è trimestrale. Ovviamente abbiamo scorte che ci permettono di ammortizzare ritardi o mancati imbarchi all’origine. Noi commerciamo un centinaio di prodotti, e la nostra politica è di averne il 99% immediatamente disponibili». Tuttavia, ammette Sandalj, anche tra i crudisti la tendenza è l’assottigliamento del magazzino a favore del just in time. «In Italia e Spagna la rimodulazione dei consumi nasce della riduzione del potere d’acquisto, non da meccanismi finanziari», riflette Sandalj. «I torrefattori hanno reagito affiancando linee economiche alle miscele tradizionali. Bisogna però dire che l’Italia sta rimanendo progressivamente fuori dalla sofisticazione di fascia alta, come le miscele gourmet, specialty o tracciabili» nota ancora Sandalj, che lamenta una certa resistenza al cambiamento, e una certa tendenza dei torrefattori di acquistare l’alta qualità soltanto per l’export.
Sulla tecnologia, invece, l’Italia rimane all’avanguardia. Grazie al “porzionato”, la cialda, di cui molti torrefattori rivendicano la paternità. «Nel 1989 in Italia si consumavano 60 milioni di cialde – racconta un vecchio esperto del ramo, che lavora per Lavazza ma preferisce l’anonimato – nel 2002 la cifra era salita a 2 miliardi». Curiosamente, l’Italia non vanta il primato di consumo pro capite in Europa, che spetta alla Finlandia con 11,9 kg. Il motivo? A Helsinki una tazza contiene 250 ml di liquido con 18 grammi di caffè, il nostro espresso 7 grammi in 42 ml. «I consumi sono in calo di circa il 10% nella grande distribuzione organizzata, ma i tempi della miscela Leone (surrogato del caffè fatto con orzo segale e cicoria, si beveva durante la guerra, ndr) non torneranno di certo», conclude l’esperto.
Fuori dal Caffè Tommaseo (Foto di A.V.)
Furio Suggi Liverani, presidente del Trieste coffee cluster e Direttore della ricerca di Illy, il torrefattore triestino per definizione – 342 milioni di euro di fatturato nel 2011 e 50mila punti vendita in 140 Paesi – individua alcune tendenze di lungo periodo mentre sorseggia lento un macchiato, anzi un capo, in un bar di via San Carlo: «Al di là dell’innegabile calo dei consumi, da un lato è cambiato il mix di prodotto nel caffè verde, con la crescente importanza del Vietnam, e dall’altro il 60% del mercato mondiale è ormai governato da quattro multinazionali: Nestlè, Kraft, Master Blenders, e P&G». «Metà del caffè consumato in Italia deriva dall’instant coffee e l’altra metà è rost & ground, cioè il prodotto tostato e macinato in modo tradizionale», spiega Suggi Liverani, che continua: «A seguito della ristrutturazione dei mercati c’è stata una progressiva riduzione delle scorte, tendenziale già da prima della crisi. A noi però fa gioco, perché il segmento d’alta qualità presuppone che il caffè sia sempre fresco. L’all crop, cioè il caffè che ha più di un anno, non entra nei nostri magazzini».
«In Italia abbiamo 700 torrefattori di dimensioni medio-piccole che servono mercati locali con prodotti a basso valore aggiunto, e oggi soffrono perché sono legati a prodotti che richiedono o una differenziazione in termini di crescita della qualità, oppure una competizione sui costi», aggiunge. Trieste non fa eccezione, per questo deve riuscire a intercettare la terza ondata commerciale dopo il boom delle importazioni e dei torrefattori: l’innovazione di prodotto. Porzionati, ready to drink, nutraceutica e integratori alimentari, oltre ovviamente alla nicchia di alta qualità. Sono queste le leve da muovere per rimanere competitivi, sfruttando l’autonomia di spesa del Friuli Venezia Giulia e la ricerca del parco scientifico universitario di Trieste. «Abbassare i costi dell’ingredientistica, e quindi la qualità della materia prima, significherebbe compromettere la nostra tradizione mitteleuropea», ammette Suggi Liverani.
Max Fabian, presidente della storica Associazione caffè Trieste, attiva dal 1891, e amministratore delegato della Demus Spa, decaffeinizzatori dal 1962 per conto di clienti come Illy, investe il 10% del fatturato pari a 3 milioni di euro, in ricerca e sviluppo. «Il decaffeinato oggi vale il 6-7% del mercato italiano, il consumo si distribuisce a macchia di leopardo nel mondo, si va dal 20% della Spagna al 35% della costa ovest Usa, al 10% della Germania all’8% della Francia. Dal nostro punto di vista non c’è stata una contrazione significativa delle quote di mercato», spiega Fabian. «Abbiamo iniziato a fare ricerca in modo strutturato dal 2000, quindi ben prima della crisi, soprattutto nell’ottimizzazione del processo, aprendo un laboratorio per il controllo qualità nell’area science park».
Come si toglie la caffeina dal caffè? «Prima si pretratta il caffè verde con acqua e vapore per togliere le cere, successivamente si estrae la caffeina grazie al diclorometano, un solvente organico che non solo estrae la caffeina, ma anche i metaboliti fungini e le altre sostanze potenzialmente irritanti per la mucosa gastrica», dice Fabian. Poi si puliscono i chicchi dai residui del solvente con vapore acqueo e si mettono in essiccatura. Infine, scatta il controllo qualità. «Siamo una società business to business, vendiamo il decaffeinato ai torrefattori e la caffeina alle case farmaceutiche per prodotti nutraceutici. In termini di mercati, l’estero pesa per il 20% sul nostro fatturato», conclude Fabian.
Guardare all’estero è nel Dna di Trieste. Per sentirlo basta farsi una passeggiata sul Molo Audace, dando le spalle alle Alpi Giulie, che delimitano quel «piccolo compendio di universo» che è il Friuli descritto da Ippolito Nievo: la Slovenia è già lì. Eppure, gli “abitanti dei caffè“ raccontati da Claudio Magris ormai parlano russo, coreano e giapponese. Gli irriducibili della tazzina italiana sono refrattari al cambiamento, e gli operatori del settore lo sanno bene. Per i piccoli, il rischio è di rimanere fuori dalla storia prossima ventura del caffè, dopo averla creata. Un problema comune a tutta Italia.