«Marchionne? Qui a Firenze nessun tassista ha la Fiat»

«Marchionne? Qui a Firenze nessun tassista ha la Fiat»

FIRENZE – Basta uscire dalla stazione di Santa Maria Novella, farsi largo tra i sandali e i calzoncini degli onnipresenti e svestiti turisti, per capire i rapporti tra la Firenze, “città piccola e povera” e la Fiat del grande accusatore Sergio Marchionne. Questione di immatricolazioni. «Ora lavoro con una Citroen, prima guidavo una Mazda: sono sette anni che non uso una macchina di quello lì. E come me, i miei colleghi: nessuno di noi ha una Fiat». Walter Del Bene è la voce storica dei tassisti dell’Arno, fino a poco tempo era presidente del Cotafi, la cooperativa delle auto bianche. Dice che la sparata di “Sergio il canadese” gli ha fatto male: «Da fiorentino, da operatore turistico, da italiano, da tifoso della Viola».

E poco importa che tutto sia nato da una risposta dell’ad al sindaco di questa città. Qui c’è in ballo più di una leadership per le primarie. Ci sono secoli di rivalità e pernacchie tra Torino e Firenze: dal passaggio della Capitale d’Italia (21 settembre 1864) a quello di Roberto Baggio (caldissima estate del 1990 ). E anche se Marchionne non è nato sotto la Mole, rappresenta ugualmente il gran nemico del Gran Ducato. Gli ultras della Fiesole, la torcida del Franchi, lo prenderebbero minimo a “pappine”, come si dice qui.

Al bar delle Giubbe Rosse, dove nei primi del ‘900 volarono ceffoni futuristi tra Boccioni e Soffici, non usano più le mani. Ma le parole sì. E il giorno dopo lo schiaffo di Marchionne alla città – come strilla la locandina de La Nazione – la rabbia dei fiorentini si mischia al bancone con la noncuranza dei turisti quasi inghiottiti dal quel gioco di ruolo che è il centro storico. «Certo, gli affari risentono della crisi: ci sono meno soldi nel mondo e quindi anche a Firenze. Noi non ci possiamo lamentare, ci salva il nome e la storia. Quindi dire che siamo poveri è una sparata a uso e consumo della politica. Siamo o no la città più bella del mondo?», chiede sornione e retorico Martino Smalzi, da 23 anni gestore delle Giubbe Rosse e per i 10 precedenti a capo di un altro bar storico sempre in piazza della Repubblica (Gilli).

I giornali locali – legati con il bastone per non farli rubare – sono pieni di inchiostro acido. Pagine e pagine con le reazioni dei notabili alle parole del capo del Lingotto. Politici, imprenditori, intellettuali, preti. Tutti gli hanno risposto per le rime: da Simone Bettini, presidente di Confindustria, al cardinale Giuseppe Betori. Passando, ovvio, per Renzi («Si sciacqui la bocca prima di parlare di Firenze») e il suo vice. Proprio il vicesindaco Dario Nardella, con un punta di perfidia, su Twitter ha scritto che prima di questa invettiva la Fiat vendeva pochino da queste parti, circa 4.000 auto all’anno, ora chissà.

Già, ora? Inizierà il boicottaggio alla casa automobilistica? L’equazione non è così diretta, per fortuna. Almeno così si augurano alla Brandini, concessionaria Fiat dal 1921. In via della Fonderia il responsabile marketing Riccardo Pucci sembra tranquillo. Anche se tecnicamente è davvero tra due fuochi, tra business e campanile. «Il mercato non dipenderà da questa polemica: chi viene da noi sa che trova prezzo e qualità». Ma non servirà un nuovo modello per dare la scossa? «No, per il momento ci godiamo la nuova versione della 500. I nostri dati di vendita soffrono la crisi, come quelli di tutto il settore. Non è questione di polemiche, dai». Sarà, ma i maledetti toscani, per dirla con Malaparte, certe cose se le legano al dito. «Ma no, dai, speriamo di no – spiegano da Car, altra storica concessionaria di Ponte alla Mosse – il calo è una questione più profonda. L’auto, insieme alla casa, è ancora un bene a cui gli italiani tengono, anche a Firenze».

Per ascoltare parole fuori dai denti occorre sporcarsi le mani di grasso. Paolo Barocchi, da 20 anni sui ponti di un’autofficina convenzionata (una delle 18 presenti nel comune gigliato) apre le braccia: «Marchionne m’è cascato, non doveva dire quelle cose. Già è dura, già tutti ci chiedono i preventivi dei preventivi prima di cambiare uno specchietto, poi se ci mettiamo pure ad attaccare i possibili acquirenti…». Dopo lo sfogo, il carrozziere ritorna aziendalista: «I modelli vanno bene – conclude dimenticandosi la Duna, la Multipla e la Bravo – per la piccola media borghesia la Fiat rimane un punto di riferimento». Sarà.

«Ma perché stupirsi – ragiona Giovanni Galli con Linkiesta -: da un gobbo come Marchionne che ci dovevamo aspettare?». Il punto di vista di Galli è policromatico: è stato il portiere della Fiorentina che perse per un punto lo scudetto contro la Juve nel 1982, è stato lo sfidante (sparring partner?) che il Pdl ha contrapposto a Renzi alle ultime comunali, quelle che hanno incoronato il rottamatore nell’empireo della politica. Dice l’ex portierone, attuale consigliere comunale a Palazzo Vecchio (da qualche mese uscito dal Pdl insieme ad altri due sodali): «Certe sparate servono a capire la difficoltà in cui si trova il personaggio. Ha fatto un autogol clamoroso: è riuscito a far ricompattare tutta la città intorno al sindaco. Me compreso. Io sono di Pisa ma mi sento fiorentino a tutti gli effetti e quando qualcuno ci tocca i nostri ci fa incazzare». Specie se chi insulta rappresenta, come dice Galli, «i poteri forti, Torino, la Juve: insomma i gobbi. Io ho il dente avvelenato dal 1982: da quando la Signora ci soffiò la scudetto l’ultima giornata. Qui, da quel giorno si dice: meglio secondi che ladri». Giovannino è un fiume in piena e si accalora al telefono, mentre guida. «Così si fa passare Renzi come un santo: invece basta vedere come sta amministrando, quando c’è. È tutto fermo: la linea della nuova tramvia è bloccata, il Comune è pieno di debiti tanto che dal 2014 non si potranno nemmeno più accendere mutui. Ma nessuno lo dice e lo scrive perché Matteo è bravo a comunicare, e poi se gli arrivano pure certi assist…». Cade la linea, la Panda 4X4 di Galli è entrata dentro una galleria.

Intanto, il sole si è affacciato sopra il Duomo. Fa caldo, come dimostrano i look arditi delle ragazze americane vocianti e gaudenti tra via dei Calzaioli e piazza della Signoria. Comitive di giapponesi prese di mira dai mendicanti, venditori ambulanti con schizzi rinascimentali da 10 euro (fatti al computer), gelati fuori le vetrine dei bar gonfi come un culturista in piena cura ormonale, e poi i cannoli siciliani a 3 euro, la pelletteria made in Sesto Fiorentino ma prodotta da mani cinesi. Le vetrine rilanciano l’alta moda italiana a prezzi per non italiani: la culla del Rinascimento tra mostre, code, foto ricordo e “vuoi una rosa?” sembra un luna park. Nei vicoli, il profumo del lampredotto si mischia al tanfo alle vesciche soddisfatte la notte appena passata.

«Altro che povera i soldi qui girano», dicono dalle Giubbe Rosse dove pagano di affitto circa 30mila euro al mese. Su Ponte Vecchio, altra cartolina immancabile, gli orefici sembrano resistere. Alla crisi e a Marchionne («Chi?»). Lo scorso gennaio, in piena furia montiana dei controlli stile Cortina, qui la Finanza trovo picchi del 200% di evasione fiscale. Nessuno faceva gli scontrini. «Nonostante tutto non ci lamentiamo: il turismo è sempre più mordi e fuggi, gli americani sono stati sostituiti dai brasiliani e dagli indiani con i soldi. Ma si regge – spiegano da queste bomboniere con vista sull’Arno – si regge la botta». «Anche perché ormai – come spiega Carlo Bocciolini, leader degli ambulanti del mercato di San Lorenzo – non si capisce più chi fa il politico e chi fa l’industriale. Io, nel dubbio, sto con Matteo: spero che vinca. Deve togliere la poltrona da sotto il sedere a D’Alema».

Una voce contrastante, quella dell’ambulante del mercato più antico di Europa: i suoi colleghi sono tutti in guerra con Palazzo Vecchio perché il rottamatore li vuole sfrattare da lungo la basilica per lasciare libera la zona. Ma in questa polemica c’è in mezzo il campanilismo, e non si scherza. Facile che una maglietta ad hoc contro l’amministratore delegato in pullover tra qualche ora comparirà proprio su questi banchi. Intanto, vicino alla stazione c’è un piccolo volantinaggio. Sono i dipendenti della multinazionale farmaceutica Menarini: la famiglia Aleotti, proprietaria del colosso con sede a Firenze ma diramazioni in tutto il mondo, ha detto che licenzierà 1.000 dipendenti dopo il decreto del Governo a favore dei farmaci generici. «L’Italia non ci vuole», dicono dalla Menarini. Città che vai, Marchionne che trovi.
                             

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter