Diciamolo subito, così evitiamo inutili fraintendimenti. La serata di confronto televisivo fra i cinque candidati alle primarie della sinistra è stata una bella pagina di democrazia, con cinque persone appassionate, competenti, oneste e vogliose di ridare alla politica una dignità che sembra (quasi) definitivamente perduta in Italia.
Quindi, viste le mortificanti vicende dei Lusi, dei Fiorito, dei Belsito e dei Maruccio, possiamo trovare nel dibattito su SkyTg24 buoni elementi per non cadere nella più cosmica depressione o per non decidere di scegliere la via della protesta dura contro il “sistema”. Tutto bene dunque? Siamo approdati finalmente nella modernità, pronti a lasciare all’opinione pubblica le scelte importanti con massiccio uso di social network e televisione? Siamo quindi all’avanguardia, capaci di fare sintesi tra la politica “liquida” del nuovo secolo, la tradizione europea dei grandi partiti del ’900 e la versione a stelle strisce che usa le primarie da decenni per scegliere i candidati più importanti? Purtroppo no, va detto con chiarezza e senza indugio. Purtroppo no, mille volte no.
Siamo invece di fronte a una drammatica involuzione del nostro sistema politico, ormai privo (o quasi) di una sua dignitosa capacità di autodeterminazione, vittima di una nevrosi da consenso che lo porta a compiere scelte collocabili tra la furbizia stile Cetto La Qualunque e la disperazione di chi vede traballare lo scranno in pelle rossa di Montecitorio. Vediamo perché, cominciando da sinistra.
Sì, cominciamo da sinistra, perché proprio lì c’è quasi tutto quel che resta del ceto politico italiano accettabilmente colto, dignitosamente preparato, sufficientemente appassionato. La sinistra italiana ha ancora barlumi di memoria, ha spesso salvato le categorie, anche verbali e organizzative, di una politica seria e capace di mettere mano alle situazioni e ai progetti. Guardiamolo, però, l’uso fatto dello strumento delle primarie. Due volte, in passato, è stato utilizzato per certificare a mezzo plebiscito le candidature di Prodi e Veltroni. Nel primo caso (anno 2005) per Prodi futuro premier, nel secondo caso (anno 2007) per Veltroni futuro segretario del partito.
E qui già dovremmo insospettirci non poco: le primarie servono a scegliere i candidati alle elezioni o aboliscono le forme di rinnovo delle cariche nel partito (una volta si facevano i congressi)? In Italia, come al solito, facciamo una gran casino e mettiamo tutto insieme. Ma non va bene, va detto chiaro e forte. Non va bene perché le primarie sono l’inizio di un processo, non la sua conclusione. Le primarie servono a scegliere i candidati che poi vanno a competere per i ruoli esecutivi, dopo essersi sottoposti al giudizio elettorale. Ma debbono essere candidati affiancati, una volta vinte le elezioni, da movimenti politici forti e radicati, non ridotti a miserabili contenitori organizzativi esposti al pubblico ludibrio dalla mattina alla sera
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Torniamo un momento agli Stati Uniti, che fanno le primarie da sempre. Sono i democratici a inventarle (la sinistra dunque, non a caso) nel 1847. Lo riscrivo, se qualcuno pensa che ho sbagliato numero: nel 1847 in Pennsylvania. E oggi, a 160 anni di distanza, il Partito Democratico americano è ancora lì. Forte, anzi fortissimo, con Obama alla Casa Bianca.E le primarie disciplinate per legge.
Invece noi facciamo esattamente il contrario: usiamo le primarie (a sinistra) dicendo che esse servono a superare, bastonare e immobilizzare il partito (o i partiti) rendendoli degli eunuchi (assai costosi peraltro), togliendo loro lo strumento essenziale del loro agire: la capacità di individuare le persone, di scegliere i candidati. Chi ha dei dubbi in proposito guardi alle vicende lombarde di questi giorni: la candidatura di Ambrosoli è forte, credibile, evocatrice di grandi valori di onestà fino al sacrificio supremo. Arriva in un momento di massima confusione sul fronte opposto, con l’asse Lega-Pdl mai fragile come adesso. E immediatamente propone uno schema di “primarie light”, in forma civica e, sostanzialmente, confermativa. E, detto tra noi, Ambrosoli ha perfettamente ragione.
Torniamo un momento su scala nazionale. Guardiamo ai due candidati più forti. Se vince Bersani siamo alle solite, al risultato più ovvio: il capo del partito scende in campo alle primarie per farsi confermare nel ruolo di capo e candidato al ruolo di primo ministro, una sorta di plebiscito. Mi si potrebbe dire: stavolta può vincere Renzi. Io per ora so soltanto che in vista di una competizione stavolta più incerta il partito ha drasticamente irrigidito le regole di partecipazione.
E poi faccio una domanda: e se per caso vince Renzi? Diventa di fatto il leader della sinistra italiana. A quel punto cosa si fa del PD e del suo segretario? Negli Stati Uniti i due grandi partiti organizzano le primarie senza far scendere in campo i responsabili politici (che quasi non esistono) e quindi lavorano su un sistema modellato per usare bene questo strumento di selezione delle candidature. Invece noi cerchiamo la via italiana alle primarie, creando un mostro a più teste che genera confusione spaventosa e soffoca quel che resta della nostra organizzazione politica per partiti, ormai deboli e screditati.
Con il risultato che dopo le elezioni (quelle vere) tutto va nel peggiore dei modi, come dimostrano le due legislature 1996-1998 e 2006-2008.
Se ancora resta un dubbio guardiamo a destra. Dopo vent’anni di dominio totale di una sola persona il (mai nato) partito chiamato Pdl cerca di organizzare le primarie. Ma non lo fa per scegliere il candidato, la fa solo per uccidere il padre fondatore passando da fuori, sparandogli dalla finestra. Insomma anche in questo caso non per fiducia nello strumento, ma per calcolo d’opportunità combinato con le condizioni (disperate) del momento. No, amici cari. Così non va.
* ex direttore del Tempo e impegnato per Expo 2015