La riforma del lavoro Fornero, il punto degli esperti

Il premier a Parigi conferma che la Legge Fornero sarà modificata

Mario Monti l’ha approvata come legge di punta del suo governo. E ora persino lui vuole modificarla. La legge del lavoro che porta il nome del ministro Elsa Fornero è diventato tema di battaglia elettorale. Ma non tutti conoscono i punti principali di una legge complicata, spesso comprensibile solo agli addetti ai lavori (basti pensare che ancora non esiste una voce di Wikipedia). Abbiamo dato la parola a giuslavoristi, avvocati e sociologi del lavoro per farci spiegare i cambiamenti previsti dalla legge numero 92 del 3 luglio 2012. 

I contratti della legge Fornero

Risponde Massimo Pallini, professore di diritto del lavoro dell’Università degli studi di Milano

APPRENDISTATO
La riforma mira a elevare il contratto di apprendistato a modalità “prevalente” per l’ingresso nel mercato del lavoro. Si prevede l’abrogazione del contratto di inserimento. L’apprendistato è stato oggetto di una legge di riforma significativa allo scadere del governo Berlusconi, che qualifica il contratto di apprendistato non più come contratto a termine, ma come contratto a tempo indeterminato. Qualificazione che ha una forte valenza simbolica e prospettica, sebbene il datore di lavoro abbia la facoltà di recedere liberamente dal rapporto allo scadere del periodo di formazione dell’apprendista. Quest’ultimo gode di tutte le tutele del lavoratore subordinato ma il suo costo per l’impresa è significativamente più ridotto perché gli si può applicare il trattamento retributivo previsto dai contratti collettivi per professionalità inferiori inquadrate fino a due livelli più bassi ed è soggetto a un onere di contribuzione previdenziale più contenuto per l’impresa.

La riforma interviene a modifica della legge numero 167 del 2011 cercando di limitare le possibilità di abusi di questo contratto. Prevede: a) una durata minima del contratto di apprendistato, fissata in almeno sei mesi; b) l’introduzione di un meccanismo in base al quale l’assunzione di nuovi apprendisti è collegata alla percentuale di stabilizzazioni effettuate nell’ultimo triennio (50%), mentre per il primo triennio di applicazione della riforma il rapporto in questione è fissato nella misura del 30%; c) l’innalzamento del rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati dall’attuale 1/1 a 3/2.

CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO
La riforma agevola il ricorso a contratti a tempo determinato come contratti di ingresso di giovani lavoratori, prevedendo che in caso di contratti di durata inferiore a 12 mesi, e per una sola volta tra lo stesso datore di lavoro e lavoratore, il ricorso al contratto a tempo determinato è libero seppur con un parziale aggravio economico in termini contributivi (+1,4 %). Il contratto a termine costituisce così una sorta di lungo periodo di prova. La riforma cerca anche di disincentivare il ricorso alla reiterazione del contratto a termine allungando l’intervallo minimo che deve intercorrere tra un contratto e il successivo (60 giorni per contratti fino a sei mesi e 90 giorni per contratti di durata più lunga).

Il mancato rispetto di questo termine trasforma il contratto a tempo indeterminato. D’altra parte i contratti (di durata superiore ai 12 mesi o successivi al primo) devono essere sempre giustificati da esigenze tecnico-organizzative e non possono avere complessivamente una durata superiore a 36 mesi. È pur vero che un’azienda potrebbe utilizzare a rotazione lavoratore sempre diversi con contratto a termine di durata massima di un anno, ma è una modalità organizzativa veramente difficile da adottarsi concretamente per un’azienda, salvo che per personale da assegnare a mansioni elementari e ripetitive.

CONTRATTO A PROGETTO
La riforma prevede una definizione più stringente del progetto, eliminando la possibilità di individuarlo in un programma o semplice fase di lavoro e richiedendo che venga indicato nel contratto il risultato finale che ci si attende dalla prestazione. Si interviene anche sull’articolo 69 del decreto legislativo numero 276 del 2003, chiarendo definitivamente nel senso che la mancata individuazione del progetto determina ipso facto la trasformazione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa in rapporto di lavoro subordinato e introducendo una presunzione che i collaboratori a progetto che prestano la loro attività con modalità analoghe a quelle dei dipendenti del committente si considerano anch’essi lavoratori subordinati alle dipendenze di quest’ultimo. Infine la riforma garantisce ai collaboratori a progetto che il loro rapporto non possa essere recesso dal committente prima della scadenza, salvo che non vi sia una giusta causa o una loro comprovata inidoneità professionale.

LAVORO ACCESSORIO, ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE, LAVORO INTERMITTENTE
La riforma semplifica le modalità di ricorso al lavoro cosiddetto accessorio (con pagamento mediante voucher), consentendolo per ogni tipologia di attività entro il limite dei 5.000 euro annuali complessivi, ma escludendolo in favore di committenti imprenditori commerciali e professionisti. Anche il ricorso alla associazione in partecipazione è ridotto al massimo a tre associati per ogni azienda e con la prova che l’associato partecipi agli utili e ne possa controllare la loro determinazione. Vengono infine eliminate le modalità di lavoro intermittente con cui il lavoratore deve garantire la sua disponibilità senza ricevere alcun compenso se non viene chiamato. 

PARTITE IVA
Nella riforma si limita anche la possibilità di ricorrere a prestazioni di lavoro autonomo con partita Iva. Si introduce una presunzione di diritto secondo cui tali rapporti diventano di collaborazione coordinata e continuativa qualora ricorrano almeno due dei seguenti presupposti: a) che la durata della collaborazione sia superiore a sei mesi nell’arco di un anno solare; b) che il ricavo dei corrispettivi percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare superi la misura del 75%; c) che il prestatore abbia la disponibilità di una postazione di lavoro presso il committente.

La configurazione del rapporto come collaborazione coordinata e continuativa implica l’applicazione di tutte le norme che disciplinano tale contratto, incluse quelle relative al regime previdenziale e all’eventuale trasformazione della collaborazione in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato qualora sia stata instaurata senza l’individuazione di uno specifico progetto. La riforma dispone in maniera progressiva l’aumento contributivo per i lavoratori iscritti alla Gestione separata dell’Inps, fino a raggiungere l’aliquota del 33% a decorrere dall’anno 2018. Questa impostazione ha l’intento di rendere il costo del lavoro autonomo uguale o perfino superiore al costo di un dipendente a tempo indeterminato.

STAGE E TIROCINI
La riforma si limita a rinviare alla individuazione delle linee guida ad un accordo con al Conferenza delle Regioni, per rispettare il riparto di competenze previsto dall’art. 117 Cost. Stabilisce il principio di congruo compenso degli stagisti. (Per saperne di più clicca qui)

Il licenziamento

Risponde Vincenzo De Luca, avvocato fondatore dello Studio De Luca, avvocati giuslavoristi

LE MODIFICHE ALL’ARTICOLO 18

L’intento dichiarato della Riforma Fornero era quello di rinnovare la normativa in materia di licenziamento, cosa ormai non più rinviabile dal momento che l’articolo 18 era stato varato in un contesto economico-sociale mutato profondamente nel tempo. Su questa norma, la Riforma ha introdotto una gamma di possibili conseguenze per il datore di lavoro nel caso di licenziamento illegittimo, anche diverse dalla reintegrazione. Sino alla Riforma, la reintegrazione rappresentava invece l’unica conseguenza in caso di licenziamento illegittimo. 

IL REINTEGRO DEL LAVORATORE

La casistica declinata nella Riforma è piuttosto varia e introduce delle distinzioni non sempre nitide. Tuttavia si può dire che il reintegro continua ad applicarsi per il licenziamento orale e per quello discriminatorio, nonché in tutti quei casi in cui il motivo di licenziamento risulti manifestamente insussistente. Una novità di rilievo è inoltre rappresentata dal fatto che il datore di lavoro, entro quindici giorni dall’intimazione del licenziamento, ha oggi la facoltà di revocarlo unilateralmente. Prima della riforma la revoca era già possibile, ma richiedeva il consenso del lavoratore il quale, pertanto, una volta licenziato poteva non accettare la revoca e promuovere ugualmente il giudizio. 

Non sono cambiati i tipi di licenziamento, bensì i tipi di conseguenze in cui il datore rischia di incorrere nelle ipotesi in cui il provvedimento aziendale non sia ritenuto pienamente giustificato. Sono state introdotte sanzioni economiche alternative alla reintegrazione. Come per il passato, dunque, i licenziamenti si distinguono tra quelli basati su ragioni soggettive (ovverosia disciplinari) e quelli su ragioni oggettive (cioè per motivi economici). Categoria a sé, anch’essa preesistente, resta quella dei licenziamenti discriminatori (intimati sulla base di motivi illeciti). La riforma è ispirata ad altre legislazioni europee, in particolare a quella tedesca. Si notano similitudini anche con il diritto britannico, che prevede anch’esso un periodo di consultazione (seppur in forma privata e non in sede pubblica come previsto dalla nostra Riforma) che deve essere avviato in caso di licenziamento per motivi oggettivi.

INDENNITÀ DI LICENZIAMENTO

L’indennità risarcitoria alternativa al licenziamento può andare da sei a dodici mensilità nelle ipotesi di violazioni formali (come ad esempio per il mancato rispetto delle procedure previste), ovvero da dodici a ventiquattro, nelle ipotesi in cui i motivi addotti nella lettera di licenziamento siano considerati sussistenti, ma non del tutto adeguati a giustificare il provvedimento espulsivo. È la riforma stessa a indicare le circostanze cui il giudice deve riferirsi per determinarne l’ammontare, lasciando dunque spazio alla sua discrezione per la quantificazione.

La Riforma prevede che, in caso di violazioni formali, l’indennità andrà determinata in funzione della gravità della violazione mentre, negli altri casi, avuto riguardo all’anzianità del lavoratore (nel silenzio della legge si presume aziendale, anche se letteralmente sarebbe anagrafico), al numero di dipendenti occupati dall’impresa, nonché alle dimensioni dell’attività economica dell’azienda. Ovviamente l’indennità stabilita dal giudice deve essere obbligatoriamente versata dal datore di lavoro, salvo il diritto di ricorrere contro la decisione per ottenerne la revisione.

IL RICORSO AL GIUDICE

Al giudice è lasciata ampia discrezionalità, perfino nel valutare se ricorrano o meno i presupposti per la reintegra. La differenza rispetto al passato, tuttavia, è che il giudice ha oggi la possibilità di condannare il datore di lavoro, senza necessariamente disporre il reintegro del lavoratore, conseguenza questa particolarmente grave per l’impresa, sia in termini economici che di organizzazione del lavoro.

Da un punto di vista processuale, invece, la sensibile novità della Riforma consiste nell’introduzione di un nuovo modello di processo sui licenziamenti, con tempistiche assai ristrette. In passato, infatti, le cause sui licenziamenti non sottostavano a rigide decadenze e i tempi del procedimento si dilatavano di conseguenza, anche solo per la fissazione della prima udienza. Secondo il nuovo rito, invece, il lavoratore deve proporre l’azione giudiziale entro sei mesi e il giudice è tenuto a fissare la prima udienza (che secondo la lettera della legge dovrebbe anche essere l’unica) entro i successivi quaranta giorni. La speditezza introdotta nel nuovo processo e soprattutto il notevole accorciamento dei tempi di causa hanno generato una situazione di sovraccarico dei tribunali. Si consideri in ogni caso che i procedimenti avviati con il nuovo rito andranno gradualmente a sostituire i precedenti, il che dovrebbe contribuire a normalizzare la situazione.

I nuovi ammortizzatori sociali

Risponde Maurizio Del Conte, professore di diritto del lavoro dell’Università Bocconi di Milano

LA NUOVA ASPI, ASSICURAZIONE SOCIALE PER L’IMPIEGO

L’Aspi nasce con lo scopo di creare un ammortizzatore sociale contro la disoccupazione a carattere “universale”, cioè non limitato ad alcune categorie di lavoratori. In una prima fase il governo pensava che si dovesse definitivamente superare il sistema di tutele a doppio binario e cioè quelle in costanza di rapporto di lavoro, come la cassa integrazione guadagni, e quelle per i disoccupati veri e propri. Ma questo proposito è stato poi abbandonato nel percorso di elaborazione del testo di legge, tanto che oggi il sistema rimane ben ancorato al vecchio modello della cassa integrazione come camera di compensazione della disoccupazione.

Altra importante caratteristica dell’Aspi è la sua natura assicurativa, che ne condiziona l’attivazione al versamento preventivo di una quota di “premio” da parte del disoccupato, sotto forma di contributi. Ciò significa che la universalità dell’Aspi è, in realtà, molto relativa, non includendo quelli che il posto di lavoro non lo hanno mai avuto o che lo hanno avuto per un periodo contributivo inferiore al minimo stabilito dalla legge.

ADDIO A INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE E MOBILITÀ

L’indennità di disoccupazione nel nostro Paese non ha mai avuto il ruolo che ha, invece, in molti altri Paesi europei, schiacciata com’è da un lato dalla cassa integrazione e, dall’altro, dalla indennità di mobilità. Per questo il suo addio si consumerà senza molti rimpianti.

Diverso è il caso della mobilità. Da quando è stata introdotta nel 1991, la mobilità ha svolto un ruolo centrale nella gestione delle crisi aziendali e nell’accompagnamento alla pensione dei lavoratori più anziani. Nei fatti, attraverso la mobilità si è favorito il turn over generazionale, limitando al minimo i costi sociali. A torto si è detto che la mobilità producesse una socializzazione dei costi dell’impresa: in realtà il finanziamento contributivo delle imprese al fondo per la mobilità ha sempre consentito un bilancio in equilibrio, almeno fino all’esplodere della grande recessione che, evidentemente, non poteva essere affrontata con risorse ordinarie. L’abbandono della mobilità in congiunzione con l’innalzamento dell’età pensionabile produrrà un “effetto tappo” all’uscita dal mercato dei lavoratori più anziani, con pesanti conseguenze sull’occupazione giovanile.

L’IMPORTO PER IL LAVORATORE DISOCCUPATO

A regime, il trattamento di disoccupazione dell’Aspi avrà una durata massima di 12 mesi per i lavoratori di età inferiore ai 55 anni e di 18 mesi per quelli di età superiore. L’importo sarà direttamente collegato alle settimane di contribuzione versate dal lavoratore prima di perdere il posto, che diventeranno così la base sulla quale calcolare il trattamento Aspi.

Per il 2013 l’importo dell’indennità mensile è pari al 75% della retribuzione mensile qualora essa sia pari o inferiore a 1.180 euro, mentre per le retribuzioni maggiori si dovrà aggiungere il 25% del differenziale tra la retribuzione mensile e il suddetto importo. Con circolare Inps viene stabilito il tetto massimo del trattamento. Con riferimento all’entità del trattamento economico, la novità più rilevante è che, mentre la vecchia indennità di disoccupazione valeva il 60% della media delle ultime tre mensilità, il nuovo sistema si basa integralmente sul sistema contributivo-assicurativo, quindi con importi molto variabili a seconda del curriculum contributivo del disoccupato.

MINI ASPI E INDENNITÀ UNA TANTUM

La mini Aspi ha lo scopo di assicurare un trattamento economico anche a chi non ha maturato il periodo contributivo minimo richiesto per l’Aspi. In particolare, hanno diritto alla mini Aspi i disoccupati che abbiano almeno 13 settimane contributive nell’arco degli ultimi 12 mesi. Essendo proporzionato ai versamenti contributivi, il sostegno al reddito è dunque proprio “mini”.

L’indennità una tantum per i lavoratori a progetto è una sorta di piccola buona uscita finanziata attraverso i contributi versati. L’importo è assai modesto e non si può paragonare ai tradizionali ammortizzatori sociali di lunga durata. L’unica vera salvezza, per questi collaboratori, resta quella di trovare in tempi molto brevi un’altra occupazione.

CASSA INTEGRAZIONE

La cassa integrazione esce sostanzialmente confermata dalla riforma. In particolare la cassa integrazione straordinaria, quella cioè che viene attivata nelle situazioni di crisi strutturale dell’impresa, resta il pilastro degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto. La cassa rappresenta un importante strumento di flessibilità organizzativa nelle mani delle imprese per alleggerire il costo del lavoro nelle fasi più critiche senza, tuttavia, disperdere il fondamentale valore del capitale umano formatosi al loro interno. In altri termini, i lavoratori sospesi in cassa costituiscono l’esercito di riserva, pronto a rientrare in servizio quando la situazione economica aziendale dovesse migliorare.

Da più parti è stato osservato che l’anomalia italiana della cassa integrazione ha molto contribuito ad attenuare l’impatto sociale della crisi. La verità è che, dal 2009 in poi, la cassa integrazione straordinaria è stata estesa, “in deroga” alle regole generali, anche alle imprese che prima non ne beneficiavano e che, quindi, non contribuivano ad alimentarne il finanziamento. La cassa in deroga ha rappresentato un costo insostenibile per l’Inps che, evidentemente, non poteva erogare trattamenti di sostegno al reddito senza una adeguata provvista contributiva. E, infatti, il finanziamento è stato assicurato grazie all’intervento diretto delle finanze dello Stato. La riforma prevede ora una progressiva riduzione dei finanziamenti destinati alla cassa in deroga, fino alla sua definitiva soppressione.

RICOLLOCAMENTO DEI LAVORATORI

Gli ammortizzatori sociali vengono normalmente classificati fra le cosiddette “politiche passive” del lavoro. Per questo è fondamentale che ad essi si uniscano “politiche attive” di formazione, riqualificazione e ricollocazione. Su questo la riforma insiste molto ma, in realtà, non c’è nulla di davvero innovativo rispetto al passato.

Ciò che manca ancora nel nostro Paese è un sistema efficiente di servizi per l’impiego – pubblici o privati – che siano in grado di: a) garantire ai disoccupati una formazione e riqualificazione professionale coerente con le mutevoli richieste del mercato del lavoro; b) monitorare il fabbisogno reale delle imprese e in funzione di esso indirizzare la forza lavoro, contrastando la dilagante sottoutilizzazione delle competenze dei lavoratori. Non va dimenticato che negli anni Novanta l’Italia è stata condannata dalla Corte di giustizia europea per l’inadeguatezza dei servizi per l’impiego, ma la risposta del nostro ordinamento è stata ed è ancora largamente insufficiente.

Uno dei profili di maggior sofferenza è il raccordo tra le funzioni della pubblica amministrazione e il ruolo che possono svolgere gli operatori privati del settore. La coesistenza degli uffici pubblici di collocamento e delle agenzie per l’impiego private ha sin qui prodotto più confusione che non vantaggi per gli utenti. Il tanto propagandato raccordo virtuoso tra pubblico e privato non decolla e chi cerca lavoro in Italia si fida ancora molto di più delle proprie amicizie che non degli operatori specializzati. Occorre che il legislatore dica chiaramente se intende investire risorse per ristrutturato profondamente il sistema pubblico di collocamento oppure se è meglio lasciare il campo a soggetti specializzati privati.

Donne e lavoratori anziani

Risponde Olivia Bonardi, professore di diritto della sicurezza sociale e diritto sindacale e del mercato del lavoro dell’Università degli studi di Milano

OCCUPAZIONE FEMMINILE

Le donne sono molto più che gli uomini impiegate in contratti non standard, anche a termine, e di co.co.co, oltre che nel classico part time. Le nuove misure introdotte dalla Riforma risultano però del tutto insufficienti, perché l’innalzamento del costo del lavoro a termine è irrisorio rispetto ai vantaggi che offre ed è controbilanciato dall’ampliamento delle possibilità di assunzione con questo tipo di contratto. Quanto alle misure di contrasto al lavoro autonomo, per ora sembrano aver prodotto il solo effetto del mancato rinnovo dei contratti. Quanto alle norme sui licenziamenti, la riforma dell’articolo 18 favorisce in generale l’espulsione dei lavoratori, con effetti negativi per entrambi i generi e modesti sembrano i vantaggi che possono derivare dalla riforma delle dimissioni. 

Una misura più efficace per favorire l’occupazione femminile è comunque quella che introduce gli sgravi contributivi del 50% per le assunzioni di giovani e donne, che si accosta agli incentivi fiscali già previsti nel decreto legge 201/2011, contenente anche la riforma delle pensioni. Le altre misure che riguardano in specifico le donne sono dirette alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e il loro effetto di incentivo all’occupazione, stante la loro formulazione, sembrerebbe davvero ridotto. 

POLITICHE DI CONCILIAZIONE LAVORO-FAMIGLIA

Le misure di conciliazione presenti nella riforma sono irrisorie per il genere femminile. Esse si risolvono nella previsione di un congedo obbligatorio per il padre e nella possibilità di usufruire dei voucher per baby-sitting in alternativa al congedo. La prima misura si muove in linea di principio nella direzione giusta, in quanto le politiche di conciliazione, secondo le migliori acquisizioni europee, devono mirare a consentire alle donne di lavorare di più e agli uomini di meno, in una logica volta a incentivare il riequilibrio tra i generi. Tuttavia, la previsione di soli tre giorni di congedo obbligatori per il padre sembra insignificante: uno dei tre va usufruito contemporaneamente alla madre (ed è facile presumere che sarà quello del parto). Ne restano due da usufruire in alternativa alla madre, ma questo pone rilevanti problemi applicativi, perché presuppone che in quei due giorni la madre ritorni al lavoro e ciò oltretutto durante un periodo che è di assenza obbligatoria anche a protezione della salute della madre. 

La riforma assume i connotati della beffa per le donne quando si considera che per il congedo obbligatorio il padre ha diritto a un’indennità pari al 100% della retribuzione, mentre le lavoratrici hanno diritto alla stesa indennità solo se dipendenti pubbliche. Le dipendenti di imprese private percepiscono invece un’indennità che è pari all’80% della retribuzione. È pur vero che quasi tutti i contratti collettivi prevedono che il datore di lavoro corrisponda il restante 20%, ma resta il fatto che il soggetto che paga quella differenza del 20% è diverso e il trattamento è diverso in assenza di una valida ragione giustificatrice. Sembrerebbe quasi che il legislatore abbia voluto dire che il costo del lavoro femminile deve comunque rimanere per il datore di lavoro superiore a quello maschile e che gli uomini hanno comunque diritto a un’indennità previdenziale maggiore quando si occupano dei loro figli. 

VOUCHER

La prima formulazione che ne consentiva l’uso solo per attività di baby-sitting è stata almeno in parte corretta con la possibilità di utilizzo anche per il pagamento dei servizi di asili nido. Resta in ogni caso una misura che suscita diverse perplessità: primo perché volta a favorire misure di conciliazione fai-da-te a prescindere dalla qualità dei servizi di assistenza ai bambini offerti (quelle risorse avrebbero potuto essere meglio investite nel finanziamento di asili nido qualificati); in secondo luogo perché espone la lavoratrice al ricatto del datore di lavoro che potrebbe richiederle di usufruire dei voucher e di tornare al lavoro impedendole di effettuare liberamente la propria scelta; in terzo luogo perché il sistema presenta rilevanti incongruenze, non essendo affatto chiara la corrispondenza tra voucher e riduzione del periodo di congedo.

Tra l’altro si consideri che il congedo spetta sia al padre, sia alla madre a loro scelta, e comunque può essere goduto fino all’ottavo anno di vita del bambino; il voucher spetta solo a fronte della rinuncia della madre al congedo e solo fino negli 11 mesi successivi al termine del congedo di maternità (vale a dire circa fino al 14esimo mese di vita del bambino).

LE NUOVE REGOLE CONTRO LE “DIMISSIONI IN BIANCO”

Sono previste due regolamentazioni diverse: la prima per le lavoratrici che hanno contratto matrimonio e per i genitori; la seconda per tutti i lavoratori. Per i primi, il sistema della convalida delle dimissioni (ovvero della loro conferma presso la direzione provinciale del lavoro, che ne accerta la genuinità) era già stato introdotto sin dagli anni Sessanta e non viene sostanzialmente mutato dalla legge attuale, salvo sotto due profili: viene protratto fino al terzo anno di vita del bambino (sinora era fino al primo) e viene esteso anche ai padri (sinora soggetti alla convalida solo nel caso in cui avessero usufruito del congedo). Il secondo costituisce invece una novità. Il sistema appare a prima vista molto più snello e facile sia di quello di convalida, sia rispetto a quello introdotto per un breve periodo nel 2007 dall’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano. Ogni lavoratore (al di fuori dei periodi in cui è soggetto all’obbligo di convalida per matrimonio/genitorialità) deve convalidare le dimissioni recandosi presso diversi soggetti: oltre che presso le Direzioni territoriali del lavoro, presso i Centri per l’impiego o presso le sedi individuate dal contratto collettivo nazionale. Con un sistema ancora più semplice, le dimissioni possono essere confermate attraverso un’apposita dichiarazione sottoscritta dal lavoratore e apposta in calce alla ricevuta di trasmissione al Centro per l’impiego della comunicazione di cessazione del rapporto.

È quest’ultima modalità di convalida che suscita le maggior perplessità, perché in questo modo il datore di lavoro rimane sempre unico arbitro e controllore della situazione, anche in quella fase successiva al termine del rapporto, in cui però deve comunque ancora corrispondere al lavoratore le ultime competenze. Molto complesso e problematico è anche tutto il meccanismo e la disciplina delle conseguenze della mancata convalida da parte del lavoratore delle dimissioni, che porrà diversi problemi applicativi e difficoltà.

LAVORATORI ANZIANI

Come per le donne, anche per i lavoratori anziani la misura più efficace per favorirne il reimpiego è lo sgravio contributivo del 50 per cento. A parte questo, si deve osservare che le misure indicate come volte a favorire i lavoratori anziani tali non sono, avendo piuttosto il legislatore disegnato un meccanismo volto a consentire una sorta di pensionamento anticipato. Si prevede infatti la possibilità di stipulare un accordo sindacale in base al quale il lavoratore lascia il posto di lavoro percependo dall’Inps una “prestazione” corrispondente all’importo della pensione. La prestazione è pagata in realtà dal datore di lavoro e l’Inps funge di fatto solo da intermediario.

Si introduce insomma una sorta di prepensionamento “fai da te” a cui non accederanno tutti i lavoratori ma solo quelli dipendenti da imprese in grado di poterlo contrattare con i sindacati e comunque sostenere finanziariamente. Si registra un rilevante scostamento rispetto alla recente riforma pensionistica e alle indicazioni contenute nel libro Bianco sulle pensioni della Commissione Ue, nel quale si raccomanda esplicitamente di aumentare (e non ridurre) la partecipazione al mercato del lavoro dei più anziani e di limitare i pensionamenti anticipati. Sono ben altri i provvedimenti che sarebbero necessari per favorire i lavoratori anziani, come forme di riduzione dell’orario di lavoro nella fase finale della vita lavorativa o modalità di passaggio a mansioni o a turni di lavoro meno faticosi, supporto e formazione per la ricollocazione in nuove mansioni e via dicendo. Le riforme del governo tecnico hanno facilitato i licenziamenti e al contempo ridotto le prestazioni di disoccupazione e le possibilità di pensionamento. L’effetto della riforma è quello di consentire la fuoriuscita dal mercato del lavoro degli anziani senza che ad essa corrisponda un sostegno economico. La vicenda degli esodati rappresenta solo la punta dell’iceberg, ma il problema è ben più grave.

In ogni caso, l’innalzamento dell’età pensionabile prevista dalla Riforma non avrà conseguenze sui giovani. Diversi studi hanno dimostrato che non esiste un effetto di sostituzione tra vecchi e giovani a somma zero. E non vi è nemmeno una relazione inversamente proporzionale: le analisi dei dati mostrano che gli alti tassi di occupazione giovanile si sono sempre verificati insieme ad alti tassi di occupazione degli anziani e viceversa. Le riforme del governo tecnico hanno facilitato i licenziamenti e al contempo ridotto le prestazioni di disoccupazione e le possibilità di pensionamento. 

Il mercato del lavoro

Risponde Franca Alacevich, professore di sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università degli studi di Firenze

COME POTREBBE CAMBIARE IL MERCATO DEL LAVORO

La riforma cerca di cambiare il mercato del lavoro in molti modi. Ad esempio, la riforma dell’apprendistato potrebbe – se capito dalle imprese e dagli enti pubblici – favorire l’immissione di giovani qualificati. L’Aspi – seppur nella forma della mini Aspi iniziale – potrebbe offrire una garanzia maggiore nel passaggio da un’occupazione a un’altra e sostenere la mobilità oggi tutta sulle spalle di individui e famiglie. Persino la tanto discussa riforma dei licenziamenti potrebbe ridurre uno degli ostacoli agli investimenti stranieri. In ogni caso, nessuna legge di riforma nel mercato del lavoro sarà mai efficace se gli attori (imprese, lavoratori, sindacati, associazioni imprenditoriali, ecc.) non ne condivideranno i contenuti. Le leggi del lavoro camminano sulle loro gambe.

VERSO UNA NUOVA PERCEZIONE DEL LICENZIAMENTO?

L’orientamento negativo verso la maggiore “flessibilità in uscita” dipende da molti fattori. L’ostilità diffusa va ricercata anzitutto nella nostra storia. Non dimentichiamoci che prima dello Statuto dei lavoratori esistevano licenziamenti per ragioni politiche e sindacali. Lo Statuto e il suo articolo 18 sono stati una grande conquista sindacale e come tale è difficile tornare indietro. Inoltre, la storia del nostro mercato del lavoro è segnata costantemente da una scarsa mobilità job to job. Anche questo rende il licenziamento meno accettabile. Il nostro modello di welfare inoltre è tutto volto alla tutela degli insider. Il che determina una propensione razionale per il lavoro stabile e sicuro. Non basta levare i laccioli al licenziamento se non si mettono in campo politiche efficaci improntate all’equità sociale e al rispetto reciproco da parte di imprese e lavoratori.

SERVE UN NUOVO SINDACATO?

I sindacati indubbiamente hanno un grosso problema. I loro iscritti sono prevalentemente lavoratori adulti, con lavoro a tempo indeterminato, e pensionati. Tutte le nuove figure del mercato del lavoro sono sottorappresentate: dai giovani ai lavoratori non standard, dalle donne agli immigrati. I sindacati hanno fatto e stanno facendo grande attenzione al reclutamento di queste figure e ai loro interessi. Tuttavia, senza grande successo. Questa situazione determina un dilemma che non è facile risolvere: tutelare gli iscritti o farsi portatori degli interessi generali di tutti i lavoratori e le lavoratrici? Nonostante la grande attenzione verso gli interessi generali, la base li riporta sempre verso un certo conservatorismo e la tutela degli interessi degli insider. Ma vi è un’altra ragione: i sindacati vorrebbero aprire le porte agli interessi delle nuove figure del mercato del lavoro senza far perdere alle vecchie figure del mercato del lavoro le tutele conquistate. 

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