Con l’elezione di Pietro Grasso alla presidenza del Senato e di Laura Boldrini alla guida della Camera, Pier Luigi Bersani ha dato inizio alla campagna elettorale. Ma a quanto pare non contro Silvio Berlusconi, bensì contro Beppe Grillo. I due nuovi presidenti di Camera e Senato, i cui discorsi d’insediamento possono anche non essere piaciuti per eccesso di retorica, sono però una forte immagine di rinnovamento, entrambe sono figure certo parte della sinistra ma non sono precisamente il vecchio apparato ex comunista.
E dunque Boldrini non è un candidato contro l’antropologia delle Nicole Minetti, ma contro la grevità delle grilline come la capogruppo Roberta Lombardi («Ao vedete di alzare er culo che qui se fa come in chiesa»). E Grasso, che fu giudice alatere al maxiprocesso di Falcone Borsellino, è la giustizia, non il giustizialismo ideologico di Antonio Ingroia. Insomma Bersani sa già che questa legislatura è destinata a brevissima vita, prepara le elezioni, e prepara l’antidoto contro il suo vero nemico: prepara una squadra per mangiarsi Grillo e non essere mangiato da Grillo.
Eletti i presidenti di Camera e Senato, adesso che succede nel Palazzo? Ci si avvicina per gradi al voto, con la sola incognita della data delle prossime elezioni e della complicata partita per eleggere, dal 15 aprile, il nuovo presidente della Repubblica. Malgrado l’elezione di Grasso, con 137 voti, significhi che Bersani ha guadagnato 19 voti in più rispetto ai 118 sui quali può contare ufficialmente, il Pd continua a non avere in Senato una maggioranza sufficiente a governare.
Se ci sono stati infatti – ed è possibile, anzi praticamente certo – voti grillini per Grasso, questi sono stati tuttavia pochissimi: appare infatti verosimile che a dividersi sia stato soprattutto il gruppo di Monti e un po’ la sud Tiroler, da Grillo possono essere arrivati due o al massimo tre voti (quelli dei siciliani, si presume). Dunque le elezioni non sono lontane perché l’evanescente maggioranza Pd-Grillo, com’era prevedibile, non esiste. Il segretario del Pd ha tuttavia guadagnato oggi la possibilità di rivendicare per sé, senza dubbi, un incarico esplorativo che Giorgio Napolitano, da lunedì o martedì prossimo, difficilmente gli potrà negare.
Il segretario del Pd effettuerà le consultazioni ma appare improbabile che possa costituire una maggioranza, gli servirebbero tutti i voti di Mario Monti e almeno una parte dei voti di Grillo. Impossibile, o quasi. Tutto adesso ruoterà dunque intorno a due grandi problemi che si incrociano: la nomina del nuovo presidente della Repubblica e la data delle elezioni.
È probabile che Bersani insista, anche nell’individuazione del nuovo capo dello Stato, con il profilo già individuato con Boldrini e Grasso: una figura che corrisponda allo slogan «il cambiamento fuori dal populismo», nuovo refrain della segreteria democratica che appare aver ritrovato quantomeno una linea di comportamento coerente. Quella che Bersani cerca è una personalità insomma che colpisca il Movimento 5 stelle svuotandone di senso la retorica, ma che pure, di sponda, faccia male anche a Berlusconi, il Cavaliere che immaginava uno scontro elettorale a due, tra se stesso e Beppe Grillo. È evidente che questo nuovo identikit per il Quirinale non corrisponde più alla figura di Romano Prodi, ma assomiglia maggiormente, tra i nomi che si sono fatti nelle ultime settimane, al profilo dei professori Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky.
Ma quando votare? Le date sono soltanto due: o giugno o ottobre. A Bersani – e un po’ anche a Berlusconi – conviene votare il più presto possibile: a giugno. Il segretario del Pd pensa di potersi ricandidare lui, ritiene di poter ritrovare linfa nella nuova squadra e nella nuova immagine che vuole dare al suo partito (a questo proposito anche il candidato sindaco di Roma difficilmente potrà essere un nome del vecchio apparato). Ma sulla strada di Bersani, tra il segretario e la candidatura a premier, c’è il rottamatore Matteo Renzi che ha già disposto le sue truppe sul campo e che, in una recente intervista all’Espresso, ha pure detto di volersi candidare lui «in caso di voto anticipato».
Ecco dunque il primo problema di Bersani: Renzi. Ed ecco la soluzione per scavallarlo: votare a giugno, cioè così presto da non aver il tempo di fare un congresso e nemmeno delle primarie. L’unico intoppoper giugno è la presenza fisica di Napolitano. Perché le camere si possano sciogliere in tempo sufficiente da permettere il voto a giugno, il presidente Napolitano dovrebbe dimettersi entro due settimane da oggi in modo tale da anticipare tutto il processo: nomina del nuovo presidente e scioglimento delle Camere. Ma chi conosce Giorgio Napolitano e la sua psicologia esclude categoricamente che il presidente possa dimettersi, o accettare una rielezione. «Non rientra nel suo modo di pensare, di vedere il mondo, di leggere la politica», dicono gli amici.