Impazza per tutto il globo ormai da settimane, ed è il nuovo fenomeno web del momento. L’Harlem Shake Dance, la danza dalle movenze pelviche inventata negli anni ’80 ma rilanciata da un video postato su Youtube a gennaio dal dj americano Harry Rodrigues, sta conquistando fan in tutto il mondo che postano quotidianamente migliaia di nuovi video online. È approdata ben presto anche in Medio Oriente, sbarcando per prima sulle coste della piccola Tunisia alle prese con la difficile transizione politica del post Primavera araba.
Un gruppo di studenti di un liceo per l’alta borghesia di Tunisi è finito al centro della bufera dopo che alcuni studenti hanno postato su internet un video che li ritrae intenti a ballare in massa l’Harlem Shake vestiti in modo grottesco, alcuni perfino con la sola biancheria intima.
Un militante di Ennahda (il partito islamista al potere) ha immediatamente allertato gli ispettori del ministero dell’Istruzione dopo aver visto il video su Youtube. I funzionari, mandati con la consegna di punire in maniera esemplare sia gli studenti che i dirigenti scolastici che avevano avvallato l’impudica bravata, sono però incappati in una imbarazzante rivelazione: coinvolto nel video ci sarebbe stato anche il figlio di un influente membro del parlamento, appartenente proprio al partito Ennahda.
Il piccolo scandalo è sfuggito al controllo delle autorità infiammando la rete e i blog tunisini che si sono sbizzarriti nello spargere voci secondo le quali il figlio del parlamentare islamista nel video indosserebbe addirittura dei pantaloni rosso sgargianti sottratti appositamente alla madre. In pochi giorni migliaia di video analoghi girati nei luoghi più improbabili delle città tunisine sono spuntati in rete, dando forma ad una sorta di ironica protesta contro le autorità islamiste e i loro rigidi costumi.
Alcuni hacker hanno inoltre forzato il sito del ministero, i cui tasti per alcuni giorni hanno “danzato” nella homepage al ritmo di Harlem Shake. Il 3 marzo il fenomeno dalla rete è passato alle strade, quando alcune centinaia di persone si sono radunate di fronte al ministero dell’Educazione per una “Harlem Dance session” di massa, in protesta contro i provvedimenti presi nei confronti degli studenti coinvolti nel primo video.
Secondo Myriam, ricercatrice tunisina specializzata in Islam politico, i ragazzi delle scuole superiori hanno adottato questo metodo come l’unico nelle loro mani per potersi sentire parte del discorso politico. «Non penso che volessero dare un messaggio politico chiaro a favore o contro una parte politica precisa. La loro è stata una reazione ai costumi sempre più rigidi imposti al paese nell’arco di pochi mesi. Il gioco era infastidire i funzionari del ministero, e ci sono riusciti».
Il bisogno di riconquista dello spazio pubblico e dell’uso libero del corpo ha ben presto contagiato anche i vicini arabi, primo fra tutti l’Egitto. Nel paese delle piramidi, anch’esso alle prese con il rigido controllo politico e sociale imposto dagli islamisti della Fratellanza musulmana, i video online hanno cominciato ad apparire in massa. Quattro ragazzi, ripresi mentre ballavano in biancheria intima di fronte alle piramidi sono stati riconosciuti e arrestati. La reazione non si è fatta attendere: il 28 febbraio dozzine di ragazzi si sono radunati al Cairo di fronte al quartier generale dei Fratelli musulmani per una Harlem Shake di solidarietà con gli arrestati.
L’irriverenza della nuova forma di protesta ha subito scatenato la reazione dei leader religiosi più radicali, che uno dopo l’altro hanno proclamato la loro condanna per la nuova impudica moda. «Sheikhs against Shakes» titolava la Tv pan-araba al-Arabyya, a metà febbraio, con una non troppo velata ironia. La condanna, però, non ha fatto altro che dare maggiore visibilità al fenomeno: nuovi video hanno cominciato a giungere da altri paesi del mondo arabo come Giordania, Libano e Marocco. Non da ultimo, perfino nell’Iran degli Ayatollah sono stati pubblicati alcune clip, in quello che sembra un nuovo, e stavolta esilarante, “effetto contagio” della Primavera araba.
*Eugenio Dacrema, Ispi research assistant