L’attentato di ieri ai danni dell’ambasciata francese a Tripoli è solo l’ultimo di una serie di incidenti che testimoniano una crescente presenza di elementi jihadisti in Libia e una maggiore radicalizzazione di alcuni gruppi salafiti.
Nella Libia post-Gheddafi lo stato di diritto e il monopolio dell’uso della forza da parte dell’autorità centrale si stanno affermando molto faticosamente e questa situazione di instabilità sembra favorire derive estremiste. Di fatto il governo di Tripoli controlla solamente la capitale e parte della Tripolitania, mentre il resto del paese vede una presenza delle forze governative “a macchia di leopardo”.
Se l’impulso della rivoluzione libica non è derivato certamente dalle forze islamiste, queste sono state comunque pronte a prendervi parte cercando di orientare a loro favore le sorti del conflitto. La presenza di elementi legati ad Al-Qaeda è stata registrata sin dalle prime fasi della sollevazione armata in Cirenaica e si è resa protagonista di almeno due azioni rilevanti: l’assalto di alcune stazioni di polizia ed edifici governativi il 17 febbraio 2011 e l’attacco suicida che ha distrutto il quartier generale delle forze di sicurezza gheddafiane a Bengasi il 20 febbraio.
Nel corso delle prime settimane di conflitto non erano mancate dichiarazioni di sostegno alla causa del jihad in Libia da parte di alti esponenti della leadership di Al Qaeda, tra le quali quelle Ayman al-Zawahiri e dei libici Attiyatullah al-Libi, ucciso nel 2011, e Abu Yahya al-Libi, numero due di Al Qaeda anche lui ucciso in Pakistan nel 2012.
La tradizione “jihadista” della Cirenaica sembra offrire un terreno fertile. All’interno della galassia delle milizie vi sono certamente gruppi radicali violenti composti da elementi qeadisti. L’islamismo radicale in Libia è stato storicamente alimentato soprattutto dall’oppressione del regime. Per buona parte dei libici, l’unico modo di dissentire da Gheddafi era quello di aderire ai movimenti jihadisti internazionali.
I libici sono stati per anni il secondo maggior gruppo, dopo i sauditi, a combattere sui fronti iracheno e afghano. Sono in particolare città come Derna, proprio in Cirenaica, ad aver alimentato il fronte qaedista. Alcuni ex membri del Libyan islamic fighting group, movimento islamista senza affiliazioni ufficiali con Al-Qaeda e attivo negli anni novanta e duemila contro il regime, hanno avuto un ruolo attivo anche durante il conflitto del 2011. Parte di questi sembrano non aver rinunciato alla via armata, altri come Abdel Hakim Belhaj hanno dimostrato collaborazione con l’autorità centrale e moderazione, tanto da trasformarsi progressivamente in forza politica pienamente partecipativa.
È nella fase successiva al conflitto, soprattutto nei primi sei mesi del 2012, che emergono le azioni compiute da alcuni gruppi di miliziani islamisti. Durante le prime settimane del conflitto emerge una sigla Emirato islamico di Barqah (nome della Cirenaica) che si rende protagonista del rapimento di civili e di ex membri delle forze di sicurezza di Gheddafi e che sarebbe guidato da Abdelkarim al-Hasadi. Ma altri gruppi sembrano decisamente più attivi: tra questi vi è la Brigata Abdal Rahman che si rende protagonista di diversi attentati alle istituzioni libiche e ad obiettivi sensibili in funzione anti-occidentale: attacchi alla sede del comitato della Croce Rossa a Bengasi nel maggio 2012 e al consolato statunitense di Bengasi nel giugno 2012.
I legami con Al Qaeda crescono. La leadership cerca contatti con le organizzazioni locali che si stanno creando, come quella di Ansar al-Sharia che sarà accusata dell’attentato che causerà l’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens e di altri tre funzionari statunitensi. A dicembre 2011 corrispondenti della Cnn segnalano l’invio di un emissario di primo piano in Libia, denominato AA, forse Abdelbasset Azouz, come sosterrà un report del Congresso Usa nell’agosto successivo.
Al Qaeda cerca di saldare due ideologie in parte contrapposte: la lotta locale dei miliziani salafiti che hanno come obiettivo un “emirato” libico (o Cirenaico) e il jihad globale. Inoltre cerca di far interagire i due fronti: la Cirenaica, di cui si è detto, e il Fezzan nuova retrovia strategica di Aqim (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e degli altri gruppi jihadisti sahariani. Qui Aqim, grazie alla benevolenza di alcune tribù locali in affari con i gruppi terroristici, sembra aver posizionato la propria base logistica e organizzativa.
L’attentato di Tripoli, per come si è verificato (un’autobomba) e per le rivendicazioni appare come un segnale della probabile saldatura tra queste componenti. Tripoli non era mai stata oggetto di attentati di questo tipo. L’operazione segna certamente un’escalation della tensione anche in funzione anti-francese dopo l’intervento del governo di Hollande in Mali.
Un primo segnale era stata l’operazione del gennaio scorso ad In Amenas, in Algeria (ma a pochi chilometri dal confine libico), che aveva comportato l’uccisione di 37 stranieri. Il suo artefice è stato il gruppo di Mokhtar Belmokhtar, che a inizio marzo l’esercito ciadiano ha dichiarato di aver ucciso in Mali, ma sulla cui reale scomparsa vi sono molti dubbi.
Per il futuro di Al Qaeda in Libia due fattori saranno determinanti: il supporto internazionale che avrà il governo libico, soprattutto nella ri-organizzazione delle forze armate (un surge libico?), e la capacità che avrà l’organizzazione terroristica di non inimicarsi né la popolazione locale (come invece avvenuto in Iraq) nè i gruppi salafiti libici, facendo percepire loro una compatibilità di obiettivi.