Musica, vendite in crescita per la prima volta dal 1999

Nel corso degli anni Zero si sono persi per strada tre quarti di fatturato

Uno strazio durato oltre dieci anni. Tanto da far pensare che il disco fosse andato in pezzi per sempre. Poi – a sorpresa? – la musica cambiò. Grazie a un piccolo numero decimale: 0,2. È la favola dell’industria discografica, nella quale il 2012 verrà ricordato come l’anno di rottura nella maledizione delle perdite. Le vendite totali della musica, in ogni forma, sono arrivate a 16,5 miliardi di dollari, con ricavi in aumento dello 0,2 per cento, certificati dal rapporto “Record Industry in Numbers 2013” dell’Ifpi (la federazione fonografica internazionale). Una percentuale che potrà non fare impressione a prima vista. Ma che, seppure di poco, interrompe un declino lunghissimo: l’ultimo risultato utile per il settore risale al 1999.

Nel corso degli anni Zero si sono persi per strada tre quarti di fatturato. Una crisi strutturale che ha portato l’industria a valere meno della metà di quanto valesse 15 anni fa. E ora questo segnale positivo, anche se è presto per definirlo una vera inversione di tendenza. Anzi: «La strada è ancora in salita», ricorda Enzo Mazza, presidente della Fimi (Federazione industria musicale italiana). Resta però l’occasione per riaccendere un po’ d’ottimismo. E riflettere sui cambiamenti che hanno investito il comparto. «Da record company», spiega Mazza, «le imprese si sono trasformate in music entertainment company». Società di servizi, «con le tante attività intorno all’artista che hanno consentito, negli ultimi anni, di ridurre il gap tra il crollo del core business – i cd – e i nuovi ricavi».

Combinate l’aumento del digitale e dei “business complementari” alla musica con la rapida crescita dei mercati emergenti e avrete quello che l’Ifpi definisce “il sentiero per la ripresa” iniziato nel 2012. Tutto misurato in dollari americani. È cresciuta ogni fonte di entrata, tranne i supporti fisici, ovvero i compact disc. Il flusso di denaro proveniente da internet è sempre più impetuoso. Download, cloud e streaming sono complessivamente in crescita dell’8 per cento e raggiungono i 5,8 miliardi. «Il digitale sta diventando rapidamente mainstream», osserva l’amministratrice delegata dell’Ifpi Frances Moore in un comunicato. Tanto da valere oltre un terzo del mercato globale, o addirittura la metà o più in alcuni delle nazioni più importanti. A partire dal Paese più importante per il business, ovvero gli Stati Uniti. 

Un quinto delle entrate digitali – ovvero 1,2 miliardi – proviene dal solo streaming. Nonostante la preminenza (in incremento a +11) dei file scaricati da negozi tipo iTunes, è l’ascesa fulminea di piattaforme come Spotify il vero fenomeno del 2012, anche nei Paesi emergenti. Sono oltre 500 e offrono 30 milioni di brani. L’origine dei guadagni è nella pubblicità e nelle royalties degli abbonamenti a pagamento. In Europa, quasi un terzo delle entrate del digitale arriva da lì. L’anno scorso Spotify ha pagato alle etichette 500 milioni di dollari, e secondo la responsabile italiana Veronica Diquattro si aspetta di fare lo stesso anche nel 2013.

«In un anno, il valore di chi usa musica in streaming è di 120 dollari, quello di chi si affida al download di 60 dollari», ha spiegato alla platea del World Communication Forum di Milano. Accanto a lei Lino Prencipe, capo della distribuzione digitale di Sony, ricordava che «con lo streaming aumenta il valore del contenuto». Da questo concetto dovranno ripartire le varie articolazioni delle società ormai post-discografiche, comprese promozione e distribuzione. I nuovi modelli di business portano soldi e una ventata d’ottimismo: «Oggi sei utenti di internet su 10 usano servizi legali per scaricare o ascoltare musica», ricorda Moore. Come sempre, cambia la tecnologia e cambiano le abitudini di chi la usa. Stavolta in una direzione che inizia a soddisfare produttori e consumatori. «Il mondo della musica si è adattato a quello digitale», afferma Moore. «E ora fornisce ai clienti le esperienze che desiderano».

Persino la nicchia dei dischi in vinile, orgoglio degli audiofili, raggiunge livelli che non si vedevano dal 1997, con un incasso di 177 milioni. Mentre i cd, seppure in calo vistoso, anche in questa fase di transizione mantengono una posizione importante. Rappresentano il passato e nel 2012 hanno perso il 5 per cento delle entrate. Ma valgono in tutto 9,4 miliardi, ovvero il 57 per cento del giro d’affari totale. Una fetta in erosione costante. Nel 2008 – cinque anni fa – la stessa voce arrivava ancora al 74 per cento. L’intero sistema d’affari si è ridimensionato sulla base del loro tracollo: a fine anni Novanta i pezzi venduti erano oltre due miliardi, oggi neanche 900 milioni. Chissà se resisteranno per altri dieci anni, come si augura Mario Simongelli, presidente dei Produttori indipendenti italiani. Ma il formato album sorprende in versione virtuale.

Sembrava un concetto superato, nella frammentata epoca dei file sparsi tra le cartelle. E ucciso, come prodotto, dalla rivoluzione del peer to peer. Eppure il download legale degli album cresce a velocità doppia rispetto ai singoli. La vera rivincita arriva poi dall’ascolto online. Dal rapporto emerge che i dischi bestseller generano più attenzione in streaming per ognuno dei loro pezzi, non soltanto per le hit. Il podio discografico va ad Adele (oltre otto milioni di copie: numeri da età dell’oro della discografia), Taylor Smith e One Direction. Ed ecco, tutta diversa, la top 3 delle canzoni più vendute, ormai soltanto in rete: in testa c’è “Call Me Maybe” di Carly Rae Jepsen, seguita da Gotye con “Somebody that I Used to Know” e dal “Gangnam Style” di Psy. Un aggettivo le accomuna: “virale”. Fenomeni del passaparola e di YouTube, prima ancora che degli incassi. 

Altra fonte di guadagno in crescita è la musica che non compriamo, ma che popola la vita e i consumi di ogni giorno. Si traduce in due categorie economico-legali: i diritti di pubblica esecuzione e le licenze di sincronizzazione. I primi (le canzoni alla radio, in programmi tv, su internet, in luoghi pubblici come negozi, bar o discoteche) sono quelli che hanno fatto registrare l’aumento più rapido: gli 862 milioni di dollari del 2011 sono diventati 943 nel 2012, con un’impennata del 9,4 per cento. La sincronizzazione fa invece riferimento alla musica usata nei film, in tv, nelle pubblicità e in caso di brand partnership: un movimento di segno positivo da 337 milioni.

Quanto alla geografia, rimane ancora americanocentrica. Tra i 49 mercati monitorati, gli Stati Uniti sono da sempre la piazza più importante, con vendite per 4.48 miliardi di dollari (in cui la parte fisica è limitata al 34 per cento), mentre il Giappone, con 4.42 miliardi, consolida il suo secondo posto crescendo del quattro per cento. Il cambiamento arriva al terzo gradino, con il sorpasso da 1.33 miliardi del Regno Unito sulla Germania (1.29 miliardi, caduta del 4,6 per cento). I segnali più rilevanti vengono però dai mercati emergenti. La regione a più rapido tasso di crescita nel 2012 è stata l’America Latina, con Brasile e Messico in testa. E in India non sono mai girati tanti soldi intorno alla musica come l’anno scorso (146 milioni, +22 per cento). La Svezia ha raggiunto il dodicesimo posto della lista grazie alle vendite digitali: è la patria di Spotify, che lì controlla il 57 per cento del mercato. Dei venti top markets (l’ultimo è la Cina, con 92 milioni), nove sono in crescita. L’Italia, con 217 milioni di dollari, è nona in classifica, ma perde l’1,8 per cento.

Perché questa contrazione? Un indizio lo dà la dimensione del mercato digitale, dove l’Italia è quindicesima. Secondo le stime della Fimi, tra download, pubblicità, abbonamenti e digital premium arriva al 24 per cento dell’industria musicale nostrana, contro il 35 per cento della media globale. Calano le vendite tradizionali, come dappertutto, ma restiamo lontani dall’innovazione tecnologica di Paesi come Svezia o Corea del Sud. «È un mix di ritardi che pesa sul Paese. Siamo in fondo alle classifiche per penetrazione banda larga e diffusione pc nelle famiglie, scarso utilizzo di carte di credito, alto livello di pirateria. Così è difficile essere competitivi», afferma Enzo Mazza, ricordando che sono questi ritardi ad aver frenato l’arrivo dello streaming in Italia.

Il digital divide Mazza lo imputa alla politica: «Se la rete non è una priorità del Paese, non si sviluppa il mercato e non lo si tutela. Se vi fosse una strategia sui contenuti allora sarebbe chiara anche la necessità di combattere l’illegalità. L’Italia è il Paese che mette i blocchi Ip e Dns ai siti delle scommesse online illegali perché danneggiano i ricavi per i monopoli…». La pirateria, per il presidente della Fimi, è ancora un danno: «L’accesso a piattaforme illegali raggiunge il 23 per cento tra gli utenti web. Il contrasto è stato un successo, ma deve essere più sistematico. Sono in gioco migliaia di posti di lavoro». Proprio nel momento in cui, ricorda, «la musica ha solo da avvantaggiarsi dal successo del mobile entertainment», legato agli smartphone e alle future reti 4G. Anche il futuro delle sette note, insomma, passa per la banda larga.

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