Tasse credito energia: così muore la nostra impresa

Il presidente Piccola Industria di Confindustria alla vigilia del convegno di Torino

«È determinante che le procedure siano all’altezza dell’obiettivo di merito del decreto, che è duplice: non solo onorare gli impegni degli enti territoriali e dello Stato, ma anche ridare fiducia al sistema delle imprese». È quanto sostiene Vincenzo Boccia, presidente di Piccola Industria di Confindustria, con delega per il credito, la finanza e le Pmi, che assicura a Linkiesta: «Nessuna contrapposizione tra gli interessi della piccola e della grande industria, la recessione ha reso tutti uguali». 

Sabato, a caldo, Confindustria aveva preferito non commentare il decreto, ora che idea vi siete fatti?
È evidente che si tratta di un primo vero passo per lo smaltimento debiti della pubblica amministrazione, finalmente si prende consapevolezza di questa macrodimensione tutta italiana e si comincia a intervenire, ben sapendo che si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente. Giudichiamo positivo anche l’allentamento dei vincoli del Patto di stabilità, che permetterà agli enti virtuosi di pagare subito 2,2 miliardi di debito. Molto bene l’estensione del meccanismo di compensazione tra crediti commerciali e debiti fiscali, finora limitato ai soli debiti iscritti a ruolo. Positiva la ricognizione dei debiti della pubblica amministrazione che consentirà di avere un quadro completo entro il 15 settembre, anche se è successiva allo sblocco dei pagamenti, e non preliminare come avevamo chiesto. 

Quand’è che le piccole e medie imprese incasseranno il dovuto dalle amministrazioni territoriali?
Siccome le procedure sono articolate ed è previsto il coordinamento tra enti territoriali la nostra preoccupazione è che ciò limiti l’incisività del decreto, che parte con una buonissima intenzione: immettere un flusso di liquidità nel sistema risolvendo parzialmente un gravoso problema mediante un’operazione di normalizzazione. Auspichiamo che nel corso dell’iter parlamentare vengano semplificati e corretti alcuni meccanismi penalizzanti. 

Ad esempio?
Il divieto delle Regioni di contrarre nuovi mutui se chiedono anticipazioni è un elemento che potrebbe far fallire il decreto in tutte quelle Regioni che già sono in deficit. È determinante che le procedure siano all’altezza dell’obiettivo di merito del decreto, che è duplice: non solo onorare gli impegni degli enti territoriali e dello Stato, ma anche ridare fiducia al sistema delle imprese. Per questo confidiamo nel pragmatismo del Parlamento, e lavoreremo per semplificare ancora. 

Sabato la Cgia di Mestre ha stimato in 130 miliardi lo stock di debiti della Pa, rispetto ai 90 miliardi di Bankitalia, in quanto l’indagine di via Nazionale non tiene conto delle imprese con meno di 20 addetti. Dal suo punto di vista di rappresentante dei “piccoli” ha delle stime diverse?
I calcoli del nostro Centro studi sono in linea con quelli di Bankitalia, teniamo presente che quando parliamo di stock di debito esso include anche i pagamenti che poi vengono saldati a 60 giorni, come prevede la normativa comunitaria. Approfondiremo sicuramente i dati della Cgia. Il commissario europeo Tajani stima in 20% il debito della Pa non ancora contabilizzato, che riteniamo sia già stato scontato dai mercati. In ogni caso, consolidare il debito in rate pluriennali è una boccata d’ossigeno non da poco per i governatori locali che hanno più difficoltà. 

Può indicare cinque priorità da portare al nuovo governo, se e quando si riuscirà a formare, per le Pmi italiane?
Le prime tre sono handicap storici del Paese: le imprese italiane hanno 20% di global tax rate in più, il 30% in più del costo dell’energia e il costo del denaro di vari punti percentuali in più rispetto alla Germania. A ciò si aggiunge che il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto di 30 punti percentuali tra il ’95 e il 2010. Sono dei nodi di sviluppo dove bisogna intervenire subito per mettere le imprese in condizioni di attrarre ricchezza, nodi che muovono centinaia di miliardi con manovre a saldo zero, non a costo zero, stimolando la vocazione industriale dell’Italia. 

Confindustria chiede da anni queste misure. Come mai non è riuscita a ottenerle?
Non siamo riusciti a farci ascoltare – rappresentiamo 160mila imprese, non milioni – ma mi lasci specificare che la questione industriale dell’Italia non è solo affare di Confindustria, ma del Paese. Lo ribadiremo venerdì e sabato prossimo al convegno biennale della Piccola Industria, che non a caso abbiamo deciso di titolare “Un’Italia industriale in un’Europa più forte”. 

Come riesce a portare avanti le istanze delle imprese che Lei rappresenta, sedendosi al tavolo con le grandi società di Stato? Non è un controsenso?
Le assicuro che si tratta di obiettivi condivisi da tutti. Quando anni fa il ciclo economico era in fase espansiva poteva accadere che un’impresa eccellesse mentre il Paese non cresceva. Oggi non è più così, e dunque gli interventi non vanno più a favore di un settore specifico – in una logica solidaristica – ma riguardano tutti i settori ugualmente colpiti dalla crisi. Il deficit di competitività del Paese è una questione che investe tutti allo stesso modo. 

Ha richiamato tre priorità. Le altre due?
La quarta è la produttività, intesa come costo del lavoro per unità di prodotto. Una questione che a affrontata attraverso contratti aziendali di secondo livello. Se non riusciamo a intervenire su questo rischiamo la paralisi. La quinta invece dipende dalla capacità negoziale dell’Italia a livello europeo, e riguarda la Bce: come mai la Fed può permettersi di non applicare i parametri di Basilea? È necessario un coordinamento nazionale e internazionale per adottare regole condivise. 

C’è anche un tema di scarsa cultura d’impresa di tutti quei piccoli che evadono le tasse e hanno una cospicua ricchezza immobilizzata. È un’altra priorità?
Il nostro ruolo come Confindustria è anche pedagogico e formativo, proprio per superare le criticità di chi non ha gli strumenti per gestire il passaggio dal modello di azienda patriarcale a quello di azienda “istituzione”, nella logica di un superamento del familismo amorale che non regge più alla prova della recessione e del mercato globale. 

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