È strano, sono stato la prima persona a pubblicare in Italia, in un libro, un pezzo di Roberto Saviano: era il 2004, un suo racconto uscì in un’antologia che editai per minimum fax. Nel 2004, un anno prima di Gomorra, Roberto Saviano era il giovanissimo autore praticamente inedito a cui tutti i migliori scrittori e giornalisti volevano fare da padri, da mentori, da fratelli maggiori; a cui tutti gli editori avrebbero voluto pubblicare un libro, riconoscendogli quasi come un dono di natura portato – nella terra arida del giornalismo disimpegnato e nella narrativa ombelicale – un talento affabulatorio incredibile e insieme capacità di analizzare i fenomeni criminali non solo dal punto di vista letterario ma anche da quello sociologico, storico, economico. Ma sopratutto Saviano era quello che metteva in gioco la sua persona, il suo corpo, che a Casal Di Principe ci aveva vissuto, che nei posti delle faide napoletane c’era stato, che i quartieri della camorra li batteva palmo a palmo, che aveva la sfacciataggine di esibire la distanza da un padre forse troppo accondiscendente con la mafia. Piaceva; piaceva a chiunque leggesse i suoi pezzi su Nazione Indiana o su Diario; era alla mano, autocritico, coraggioso, ma anche attentissimo rispetto all’esito dei suoi pezzi.
Cito questo ricordo personale, che non serve a molto se non ad avere presente quello che Saviano poteva diventare e non è (putroppo? ancora?) diventato: un grande scrittore. Sette anni dopo Gomorra – come chiunque vive in Italia sa – è uscito questo suo (mettendo tra parentesi le raccolte di articoli, i discorsi da Fazio e i racconti ripubblicati del Corriere) secondo libro, ZeroZeroZero, che come il suo primo successo planetario non è un romanzo, non è un saggio, non è un memoir, non è un reportage, non è un’inchiesta, ed è in parte tutte queste cose insieme. Gomorra aveva avuto tra i suoi tanti effetti quello – benefico tutto sommato – di ridescrivere, di allargare lo spettro merceologico e editoriale dei libri pubblicati. Si è parlato, a partire dal successo di quel libro, di “oggetti narrativi”, di “faction”, di “ibridi” come categoria onnicomprensiva e forse inutile a definire, ma suggestiva del desiderio di libertà che da lettori abbiamo cominciato a cercare nei libri che compriamo. Di quella sensazione di libertà che il suo primo libro – difettoso e smodatamente ambizioso come tutte le opere prime che valgono – aveva generato nei lettori, ne è rimasta veramente pochissima traccia in ZeroZeroZero, ed è un peccato.
Questo è dovuto molto probabilmente al fatto che nel frattempo a Saviano è accaduta la cosa peggiore che per certi versi può capitare a uno scrittore: è diventato se stesso. Si è trasformato in un personaggio pubblico, in un profeta, in un politico, in un testimone, si è anestetizzato come opinionista morale e voce da house organ del Gruppo Repubblica – L’Espresso, si è trasfigurato in tante forme diverse che avevano tutte però in comune una caratteristica che sarà anche un valore, ma un gran peso se si vuole fare letteratura: la coerenza. La prevedibilità.
Così ZeroZeroZero si presenta come un Gomorra 2 in molti sensi. Per l’impianto: l’idea di raccontare un fenomeno criminale indagando non solo però la realtà italiana questa volta ma quella internazionale. Per lo stile: una commistione di elementi giornalistici e di elementi letterari, mescolati fino a farli diventare indistinguibili.
Quello che ne viene fuori è un libro bello in alcune pagine (quelle dedicate alle vicende italiane), noioso in (molte) altre, brutto in altre ancora – scritto (quasi) tutto con uno stile coerentemente performativo. Roberto Saviano stesso ce lo rivela, quando ammette che l’oggetto della sua indagine, la cocaina, è diventata un’ossessione per lui che ne scrive, e che il tratto distintivo di questa droga è proprio la sua performatività.
Non è l’eroina che ti rende uno zombie. Non è la canna che ti rilassa e ti inietta gli occhi di sangue. La coca è la droga performativa.
E così, con la tensione mimetica che ha da sempre connotato (quasi) ogni pagina che ha scritto, Saviano elabora un libro che dalla prima all’ultima pagina cerca l’effetto, come fanno appunto i performer.
La prima controprova schiacciante di questa sensazione è una constatazione semplice semplice: in tutto il libro c’è un grande assente, il punto e virgola. Nelle 450 pagine di ZeroZeroZero Saviano utilizza una volta sola (a pag. 433) quel segno di interpunzione che – scrivono Serianni e Serafini nei bellissimi libri che hanno dedicato alla punteggiatura – serve a creare una connessione emotiva o di ragionamento che non è immediata. È il segno che chiede di più la collaborazione del lettore, che gli dà fiducia – saprà capire lui quale è il tono che intendevo, o quali relazioni si possono trarre dall’accostamento di una proposizione all’altra? Questa fiducia nel lettore Saviano non se la permette – assurdamente, visto il riconoscimento che ha – praticamente mai.
Il lettore dev’essere convinto, in fondo aggredito, inseguito, braccato a ogni riga, deve venire risucchiato, non deve più mostrare distacco: la sua suspension of disbelief deve mutarsi in una partecipazione rituale. Questo avviene attraverso la struttura narrativa, composta essenzialmente da un’alternanza di resoconti di storie stupefacenti, eccessive di criminali del narcotraffico, e di inserti poetico-letterari sulla cocaina (tra cui una specie di rap e un monologo, per capirci). Ma soprattutto attraverso lo stile. Tutte le tecniche retoriche che Saviano utilizza vanno in questa direzione: elettrizzare il lettore – quasi dovesse competere con la cocaina nel produrre gli stessi effetti di eccitazione protratta.
La prima scelta evidente in questo senso è quella di eliminare qualunque riferimento bibliografico: né in una citazione del testo, né in nota, né alla fine nei Ringraziamenti. Nemmeno in modo simulato viene citato un libro, una fonte giudiziaria, una statistica, un’ispirazione, un saggio dove approfondire o trovare conferma, un altrove. I nomi degli scrittori, Kafka, Šalamov, Conrad, Melville sono chiamati in causa come fossero semplicemente degli sciamani fuori dalla dimensione storica: dei santi di un proprio pantheon. Questa mancanza di bibliografia per chi legge è spiazzante man mano che si va avanti nel libro proprio perché la ricostruzione della storia della criminalità internazionale è estremamente articolata, per dire, come la descrizione anamnestica degli effetti della coca dura per pagine. Perché questi riferimenti mancano? Perché il mondo quando entra nella sua voce perde ogni tratto originale per diventare un unico flusso?
La seconda scelta è quello che definirei effetto chiusa. Alla fine della maggior parte dei racconti già di per sé tremendamente espliciti nella loro prospettiva, Saviano quasi mai si esime dal chiosare con un punto e una frasetta. I primi esempi che saltano agli occhi:
Ma qualcosa fermò la sua attività di mediatore d’oppio. E fu la storia di Kiki. (pag.29)
Portò i suoi figli fuori città e mostrò loro una buca ora piena di fiori, quasi sempre secchi. Ma profonda. E raccontò. (pag.29)
Guadagnare con tutti senza diventar nemico di nessuno: difficile prassi di vita, ma almeno in una fase in cui molti avevano bisogno di quel passaggio era possibile spremere danaro da tutti. Sempre più danaro. (pag.31)
Ma quando hai un’intera classe politica alleata e soprattutto quando credi di aver previsto tutto nei minimi dettagli, hai la forza della tracotanza. E la forza del danaro. (pag.39)
La storia di Kiki Camarena non dovrebbe più far male, forse persino non dovrebbe essere più raccontata perché ormai nota. Storia straziante. (pag.40)
Se il camionista che guida il camion pieno di droga si è ubriacato la sera prima e non consegna in tempo la partita, El Chapo lo elimina. Semplice ed efficace. (pag.52)
È la tecnica di Sinaloa. La sua capacità imprenditoriale. La velocità nel fiutare ogni nuovo business. Sinaloa colonizza. Sinaloa si spinge sempre più in là. Sinaloa vuole comandare. Solo lei. Solo loro. (pag.67)
Si precipitavano in forze sul luogo seguiti da uno stuolo di giornalisti compiacenti, una rapida e incruenta irruzione, nessuno presente, solo qualche chilo di polvere bianca. Ma mai un arresto. Foto, strette di mano, sorrisi. Un bel lavoro pulito. (pag. 73)
Sono i fratelli Valencia assieme al cartello di Tijuana, il cartello di Juarez di Vincente Carrillo Fuentes, e persino Los Negros, lo squadrone della morte al servizio di Sinaloa. Tutti a combattere contro il cartello del Golfo. Una vera e propria guerra. (pag. 73)
Ma sono stime, appunto, e associazioni come il Movimento per la pace con giustizia e dignità, fondato dal poeta e attivista Javier Sicilia dopo la morte di suo figlio per mano di alcuni narcos, affermano che il bilancio delle vittime della narcoguerra è in realtà molto più pesante.
Numeri e cifre. Io vedo solo sangue e danaro. (pag.85)
La terza scelta è quella di calcare se si può sull’enfasi, sempre. Con immagini esibite, spesso carnali, fisiche, come se la garanzia di verità la potessimo trovare sempre in una forma di eviscerazione:
Quel racconto m’è rimasto dentro. Col tempo mi sono convinto che le cose che ricordiamo non le conserviamo solo in testa, non stanno tutte nella stessa zona del cervello: mi sono convinto che anche gli altri organi hanno una memoria. Il fegato, i testicoli, le unghie, il costato. Quando ascolti parole finali, rimangono impigliate lì. E quando queste parti ricordano, spediscono quello che hanno registrato al cervello. Più spesso mi accorgo di ricordare con lo stomaco, che immagazzina il bello e l’orrendo. Lo so che sono lì, certi ricordi, lo so perché lo stomaco si muove. E a volte a muoversi è anche la pancia. È il diaframma che crea onde: una lamina sottile, una membrana piantata lì, con le radici al centro del nostro corpo. È da lì che parte tutto. Il diaframma fa ansimare, rabbrividire, ma anche pisciare, defecare, vomitare. È da lì che parte la spinta durante il parto. E sono anche certo che ci sono posti che raccolgono il peggio: conservano lo scarto. Io quel posto di me non so dove sia, ma è pieno (pag.14)
Voglio affondare le mani nella ferocia, rovistare dove fa più male e poi vedere cosa mi rimane appiccicati alle dita. (pag. 109)
Ho irrorato del sangue di Napoli le orecchie di mezzo mondo ma a Scampia nulla è cambiato. (pag.396)
Ho guardato nell’abisso e sono diventato un mostro. Non poteva andare diversamente. Con una mano sfiori l’origine della violenza, con l’altra accarezzi le radici della ferocia. […] Ti spingi avanti, ti sforzi di chiamare a raccolta i talenti dei tuoi sensi, ti sporgi sull’abisso. […] Ti sporgi un po’ di più. Ti arpioni con un piede sul ciglio; ora sei quasi sospeso nel vuoto. E poi… buio. Come all’inizio ma questa volta non c’è il brulichio, c’è solo una tavola liscia e lucida, uno specchio di pece. E allora capisci che sei passato dall’altra parte, e ora è l’abisso che vuole frugare dentro di te. Frugare. Dilaniare. Sprofondare. (pag. 433)
La quarta scelta è un utilizzo pugilistico delle anafore. A partire dal primo capitolo…
Fa uso di coca chi ti è più vicino. Se non è tuo padre o tuo padre, se non è tuo fratello, allora è tuo figlio. Se non è tuo figlio, allora è il tuo capoufficio. […] Se non è il tuo capo, è sua moglie che la usa per lasciarsi andare. Se non è sua moglie è la sua amante. [Etc per 4 pagine]
… per proseguire in molti punti del testo, per es.
Chi non conosce il Messico non può capire come funziona oggi la ricchezza di questo pianeta. Chi ignora il Messico non capirà mai il destino delle democrazie trasfigurate dai flussi del narcotraffico. Chi ignora il Messico non trova la strada che riconosce l’odore del danaro. (pag.49)
La cocaina è un bene rifugio. La cocaina è un bene anti-ciclico. La cocaina è il vero bene. Né la scarsità di risorse né l’inflazione dei mercati. […] La cocaina si vende più facilmente dell’oro. […] La cocaina è l’ultimo bene rimasto che permetta l’accumulazione originaria. (pag. 88)
I Rockfeller della cocaina sanno come nasce il loro prodotto, passaggio per passaggio. Sanno che a giugno c’è la semina e che ad agosto c’è la raccolta. Sanno che la semina dev’essere fatta con un seme… […] Sanno che le foglie raccolte devono essere messe a seccare… […] Sanno che il passo successivo… […] Sanno che poi bisogna pestare per bene… […] Sanno che l’ingrediente successivo è l’acido solforico concentrato. Sanno che quello che così si ottiene… […] Sanno che gli ultimi passaggi comportano acetone… […] Sanno che bisogna filtrare ancora e ancora. […] Sanno che che si ottiene il cloridrato di cocaina… (pag. 90)
L’albero è il mondo. L’albero è la società. L’albero è la genealogia di famiglie legate da rapporti dinastici suggellati con il sangue. L’albero è la conformazione a cui tendono i gruppi d’impresa quotati in Borsa che possiedono rami diversi. L’albero è la scienza. (pag. 193)
Sogni. La tua vita più informe, la più profondamente tua. Danaro o sesso. I tuoi figli e i tuoi morti che nel sogno tornano vivi. Sogni di cadere all’infinito. Sogni che ti strozzano. Sogni che qualcuno fuori della porta che vuole entrare o è già entrato. Sogni di essere rinchiuso, nessuno ti libera, tu non ci riesci. Sogni che vogliono arrestarti ma non hai fatto nulla. (pag. 393)
La quinta scelta è quella di cercare incipit dei vari pezzi che funzionassero da apoftegmi, da slogan.
Non è l’eroina che ti rende uno zombie. Non è la canna che ti rilassa e ti inietta gli occhi di sangue. La coca è la droga performativa (pag. 47)
La paura e il rispetto vanno a braccetto, sono le due facce della stessa medaglia: il potere. (pag. 56)
Il vuoto è la benzina dell’evoluzione. (pag. 143)
La Colombia è il paese delle mille facce. (pag. 156)
L’albero è il mondo. (pag. 193)
Esistono due tipi di ricchezze. Quelle che contano i soldi e quelle che pesano i soldi. (pag.243)
Ho guardato nell’abisso e sono diventato un mostro. (pag. 433)
La sesta scelta è quella di descrivere, soprattutto i personaggi messicani e colombiani, e in particolare le donne con immagini esotiche viete. Ragazze con “due perle al posto degli occhi” o “biondissima, fasciata in un vestito che le fa da seconda pelle, arrampicata su tacchi vertiginosi”.
La settima scelta è quella comporre un’autoesegesi della propria scrittura:
Sono cresciuto a libri di mare. Mi affascinava il catalogo delle navi dell’Iliade e l’Odissea d’istinto la percepivo come esplorazione del perimetro dello scibile umano. Ho scoperto e non ho mai smesso di amare i tifoni e le bonacce che mettono alla prova i capitani di Joseph Conrad, mi sono perso dietro la caccia ossessiva di Moby Dick, demone dell’animo umano incarnato in un capodoglio. Allora tifavo per il grande cetaceo o mi sentivo Ishmael, l’unico sopravvissuto del Pequod per assolvere il compito di raccontare. Adesso so di avere la stesso ossessione del capitano Achab. È la coca, la mia Balena Bianca. Anch’essa è inafferrabile e anch’essa solca tutti i mari. (pag. 340)
Io non volevo sacrificio, non volevo ricompensa. Volevo capire, scrivere, raccontare. A tutti. Andare porta a porta, casa per casa, nottetempo e di mattina a condividere queste storie, a mostrare queste ferite. Fiero di aver scelto toni e parole giuste. Questo volevo. Ma la ferita di queste storie mi ha inghiottito. (pag. 435).
Potremmo continuare con questo genere di esempi. Ma credo sia abbastanza comprensibile quello che intendo con una scrittura perennemente performativa che chiede al lettore di reagire emotivamente e non fa appello al suo desiderio di capire. Dal punto di vista stilistico, ZeroZeroZero mostra indubbiamente questa omogeneità di una scrittura tutta proiettata a condizionare chi legge, quasi volendo anticiparne le reazioni. Un tono che appunto rischia di scivolare dall’affabulatorio al profetico fino al promozionale per diventare spesso quello che Saviano stesso alla fine confessa di cercare. C’è infatti un passo letteralmente rivelatorio di una sindrome che sembra aver contagiato l’autore. Siamo a pagina 437, poco prima della fine, e Saviano sta facendo un bilancio del suo destino di scrittore ossessivo e di uomo sotto scorta. La questione implicita che si muta in esplicita è il senso dello scrivere.
Nell’Apocalisse di Giovanni si dice: “Presi quel libro piccolo dalla mano dell’angelo e lo mangiai: dolce come miele in bocca nelle viscere mi divenne amaro”. Credo che i lettori dovrebbero fare questo con le parole. Metterle in bocca, masticarle e infine ingoiarle, perché la chimica di cui sono composte faccia effetto dentro di noi e illumini le turbolenze insopportabili della notte, tracciando la linea che distingue la felicità dal dolore.
Anche qui, si vede, il rischio autoparodico è altissimo. Ma proprio per questo, la solennità non è fraintendibile. Saviano sta dichiarando cosa? Che questo libro è un’eucarestia, anzi è il Libro del Giudizio Finale, quello che svela il senso della Storia, attraverso la Croce (l’amaro) e la Beatitudine (il miele). Chi è Roberto Saviano dunque ai suoi stessi occhi? Un Dio che si sta sacrificando per il bene del mondo, pare di capire. La sua parola è Logos, Buona Novella. E l’oggetto stesso dell’inchiesta – la coca – nelle ultime righe del libro acquista una chiara simbologia eucaristica:
Il mondo è una pasta tonda che lievita. Lievita attraverso il petrolio. Lievita attraverso il coltan. Lievita attraverso il gas. Lievita attraverso il web. Tolti questi ingredienti, rischia di afflosciarsi, di decrescere. Ma c’è un ingrediente più veloce di tutti e che tutti vogliono. Ed è la coca. Un ingrediente senza il quale non potrebbe esistere nessuna pasta. Proprio come la farina. E non una farina qualsiasi. Una farina di qualità. La migliore farina di qualità: 000.
Capiamo bene che in fondo, se il genere che quindi Saviano vuole proporre al lettore è quello del rito, è fuori luogo chiedere da parte sua una qualunque ermeneutica. Qui si tratta – nelle intenzioni dell’autore – di un carisma, di un dono divino, di una lingua pentecostale. Che cerca uomini da convertire, più che lettori da informare. Ma se questa liturgia era credibile in Gomorra dove Saviano si presentava come parresiaste, come colui che esercita attraverso il proprio corpo l’etica della verità (si veda Gomorra e l’io come arma politica in L’epica-popular, gli anni Novanta, la parresìa di Tiziano Scarpa), andando nei posti certo, rischiando la pelle, ma soprattutto mettendo a repentaglio la sua voce – come si può essere mimetici eppure lucidi, cosa ci attrae nel racconto del Male da cui poi dobbiamo invece fuggire?
In ZeroZeroZero, questa immolazione non è possibile, ed è solo continuamente evocata in un conato protratto – il desiderio di disfarsi, un cupio dissolvi, il voler appartenere alle storie che si raccontano. Ma se ancora quando Saviano si riimmerge nella criminalità campana e calabrese, dal mondo che racconta viene riattivata questa capacità ipersensoriale che si fa semiologia, la percezione dell’autoctono che riconosce da un’inflessione della lingua, da una anomala conformazione urbanistica un codice; quando ricostruisce le faide tra narcos colombiani o messicani, il tutto sa di un rimescolamento di trascrizioni processuali, di voci di Wikipedia e di saggi divulgativi di storia contemporanea. E anche se intessuto di strutture scespiriane e dettagli gore, l’effetto è quello di un “romanzo criminale” dove l’elemento estetico prevale su ogni trasmissione di senso.
Non capiamo. Alle volte ci intratteniamo, perché la storia è piena di vicende strabilianti, ma non capiamo. E qui lo scrittore Saviano ha le sue responsabilità, avendo abdicato a quelle competenze che pure aveva adombrato in Gomorra: l’ermeneutica sociologica, quella psicanalitica, quella marxiana. Niente di questo livello strutturale sembra interessare l’autore, drogato – letteralmente – di quella che è la sovrastruttura (l’autonarrazione dei criminali, la narrazione giuridica): se si cita il capitalismo è semplicemente come se dicesse il Leviatano, se si accludono degli esempi matematici è solo per la loro forza genericamente suggestiva, se si dà una lettura psicologica alle relazioni tra i personaggi lo si fa in nome di forze arcaiche. L’irritante mancanza di riferimenti non solo a libri ma ad autori, a teorie, a statistiche fa il resto. I testimoni chiamati in causa sono soltanto le fonti delle polizie di tutto il mondo, che dividono i Ringraziamenti con Bono Vox, Rushdie, Fabio Fazio, Adriano Sofri, etc… Insomma, nonostante ZeroZeroZero si presenti come l’inchiesta di una vita, non si pone mai né come un’eziologia, una ricerca delle cause, né come come una ricerca sociale. Non ci interessa molto chiedere il perché le cose nel mondo vadano in un certo modo, ci interessa solo che al nostro lettore – speriamo, speriamo – venga la pelle d’oca e non gli vada più via.
*Scrittore, clicca qui per il suo profilo