Un discorso di “larghe intese”. Nelle sue seconde Considerazioni finali, Ignazio Visco ha parlato alla consueta platea di banchieri, imprenditori e politici difendendo strenuamente l’operato della vigilanza sul Monte dei Paschi, nuvola minacciosa che continua ad oscurare la facciata scintilante di Palazzo Koch. Paradossalmente, proprio nel momento in cui le redini dell’economia e della finanza sono in capo a uomini formatisi all’interno dell’istituzione: il ragioniere generale Daniele Franco, e il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. E proprio all’ex direttore generale il governatore ha rivolto gli auguri per la recente nomina, tra gli applausi.
Al netto delle dichiarazioni di rito e delle riflessioni macroeconomiche, sulle banche italiane e sull’attività di vigilanza e supervisione, il core business di via Nazionale, il governatore ha usato il bastone e la carota. A partire dalla difesa dell’operato su Rocca Salimbeni: «Dal 2010 al 2012 abbiamo imposto interventi per riequilibrare le condizioni di liquidità, sventando pericoli gravi; abbiamo richiesto un deciso rafforzamento patrimoniale e il potenziamento dei sistemi di controllo interni; abbiamo promosso un ricambio radicale del management», ha detto Visco, sottolineando la collaborazione continua con la magistratura. Aggiungendo però: «Lo scorso dicembre il sostegno dello Stato alle banche ammontava all’1,8 per cento del Pil in Germania, al 4,3 in Belgio, al 5,1 nei Paesi Bassi, al 5,5 in Spagna, al 40 in Irlanda. In Italia l’analoga quota è pari allo 0,3 per cento includendo gli interventi per il Monte dei Paschi di Siena».
Rispondendo alle dure reprimende dell’Abi, l’associazione bancaria italiana, sull’innalzamento dei fondi a copertura dei crediti deteriorati e i possibili effetti pro-ciclici, Visco ha spiegato: «Se la Vigilanza fosse stata meno incisiva, i rischi per le banche e per l’economia sarebbero stati ingenti. La tempestività e la credibilità dell’azione di supervisione hanno rassicurato gli investitori internazionali sulla qualità dei bilanci delle banche italiane». Osservando successivamente: «È opportuno correggere l’attuale penalizzazione fiscale delle svalutazioni sui crediti». E lanciando poi una frecciatina: «La garanzia ultima della stabilità delle banche è la loro capacità di generare reddito. In prospettiva, la caduta della redditività rischia di indebolirne il patrimonio e di comprometterne la capacità di finanziare il rilancio dell’economia reale». Semplificando molto, lo scambio sarebbe: voi allocate maggiore capitale per neutralizzare i crediti difficilment recuperabili e in cambio Bankitalia si prodiga con l’esecutivo per favorirne il trattamento fiscale. Aumentando, oltretutto il Fondo centrale di garanzia per i prestiti alle Pmi che non hanno un elevato merito di credito. Ergo, paga pantalone.
Nonostante l’accento sull’eccessiva dipendenza delle imprese dal canale bancario, nota: «Alla diminuzione degli impieghi contribuisce, in misura significativa, l’irrigidimento dell’offerta, legato al deterioramento del merito di credito della clientela e ai suoi riflessi sulla qualità degli attivi bancari». Purtroppo, però, «le tensioni nell’offerta di credito sembrano riguardare, seppure con minore intensità, anche imprese con condizioni finanziarie equilibrate». Se le emissioni di corporate bond, 35 miliardi nel 2012, hanno riguardato solo le grandi imprese, via Nazionale calcola in 160 punti base il differenziale dei tassi applicati ai prestiti di importo inferiore al milione di euro, rispetto a quelli di importo superiore. Uno spread doppio rispetto alla media del triennio precedente alla crisi finanziaria. In generale, per il governatore è vero che le imprese sono riluttanti ad andare sui mercati, ma le banche hanno ampiamente approfittato di questa debolezza per non prendersi rischi estremamente costosi in termini di capitale sottratto alla corsa alla compliance dettata da Basilea III.
Se la redditività è il miglior antidoto alla crisi, in questo momento gli azionisti devono portare pazienza, «rinunciando ai dividendi quando necessario», non interferendo sulla gestione e accettando «la diluizione del controllo favorendo all’occorrenza l’aggregazione con altri istituti». A maggior ragione se si tratta delle Fondazioni – bacchettate dal Fmi – a cui spetta «promuovere la selezione degli amministratori sulla base della competenza e della professionalità, con criteri trasparenti». Un riferimento al difficoltoso processo in corso a Siena, dove l’ente guidato dall’uscente Gabriello Mancini, già al 33,5% della banca, scenderà ancora.
A leggere bene, un punto dove la diplomazia di via Nazionale si attenua riguarda le righe dedicate alla Banca popolare di Milano. Una battaglia, quella del passaggio da società cooperativa a Spa ibrida, il presidente Andrea Bonomi, appoggiato da Bankitalia, ha dovuto mettere nel congelatore, prendendo atto dell’opposizione dei sindacati e dei dipendenti-soci. Almeno per ora. Il modello mutualistico, ha detto Visco, «può risultare oggi inadeguato per intermediari di grande dimensione, operanti a livello nazionale o anche internazionale, quotati in borsa, partecipati da investitori istituzionali rappresentativi di una moltitudine di piccoli risparmiatori che hanno finalità e interessi diversi da quelli cooperativi. Per intermediari di questa natura, l’applicazione rigida di alcuni istituti tipici del modello cooperativo può anche incidere negativamente sulla capacità di rafforzare la base patrimoniale». Un rischio, quest’ultimo, che via Nazionale non può permettersi, soprattutto in contemporanea a Mps.
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