E così si terranno a Roma, in pratica in contemporanea, due incontri annunciati come decisivi – almeno a breve termine – per la politica di sinistra in Italia. Da una parte l’assemblea nazionale del Pd che dovrebbe trovare un bandolo nella matassa di fili elettrici con quale ha rischiato di rimanere fulminata negli ultimi due mesi (un percorso di seppuku composto da elezioni nonvinte – débâcle Marini-Prodi – governo di larghe intese) e la prima uscita di quel cantiere di cui un Vendola, orfano dell’alleanza col Pd, ha invocato la necessità, battezzandolo “La cosa giusta”.
C’è per fortuna un certo strano fermento a sinistra, soprattutto tra quei milioni di persone che hanno pensato, come dire, di votare per un programma di cambiamento e si ritrovano con Capezzone e La Russa alleati di governo: c’era quasi da sperare in una sconfitta. È vero che questo fermento alle volte sembra un tremolio di un agonizzante tenuto in vita dai farmaci, ma per altri versi è vero che non si può non rendere merito a quel minimo ottimismo della volontà che porta persone quali Stefano Rodotà, per esempio, o Fabrizio Barca, o Pippo Civati o Walter Tocci o Laura Puppato o varie teste pensanti di Sel, in queste settimane, a tenere il punto sulla possibilità di uno schieramento alternativo a questo Pd diventato senza colpo ferire quell’idea di partito dove all’improvviso un Francesco Boccia è un portavoce rappresentativo.
Vari di questi ottimisti li ho incontrati qualche giorno fa alla sede della casa editrice Laterza, che aveva organizzato (come spesso e meritoriamente fa) un seminario a partire dal famoso documento di Barca, Un partito nuovo per il buon governo, e dal libro di Pietro Ignazi, Forza senza legittimità, ispiratore ideale a detta di Barca di quello stesso documento. È stata una discussione lunga (ore 17-20) articolata, interessante. Si sono di fatto condivise molte delle analisi di Barca che ha trovato in questa formula – “partito palestra” – la concezione di un partito non autoreferenziale (spaccato tra correnti etc…), non parassitario nei confronti della macchina statale (anzi addirittura “sfidante”) e capace di fare tesoro della vitalità della politica dal basso (dal terzo settore a gli amministratori locali…).
La formula sintetica per questa trasformazione Barca l’ha definita più volte nel corso del suo intervento “mobilitazione cognitiva”, termine che nel suo documento spiega così: «La mobilitazione cognitiva come superamento della tensione fra tecnocrazia e democrazia. La mobilitazione cognitiva, realizzata sulla base dei convincimenti generali che caratterizzano la “cultura” del partito, si articola in due fasi. Consiste prima di tutto nel raccogliere, confrontare, selezionare, aggregare e talora produrre conoscenza sul “che fare” dell’azione di governo attraverso un confronto pubblico, informato, acceso, aperto e ragionevole, nei luoghi del territorio, fra iscritti, simpatizzanti e “altri” singoli o membri di associazioni, genuinamente indipendenti».
L’idea di politica che si evidenzia dal documento di Barca, come dalla sua introduzione al seminario Laterza, è quella di trovare finalmente un metodo per poter rinnovare un processo democratico interrotto, per affrontare insomma insieme la questione della governance e quella del deficit di rappresentanza. E quest’ultima ben ce la abbiamo presente come piaga assoluta della vita politica italiana della Seconda Repubblica, dominata da partiti azienda, governi tecnici, leaderismi, leggi elettorali emetiche. In questo senso le parole di Barca sembrano convincenti. Lo sono, anzi. Ma – come lui stesso lamentava – lo sembrano e lo sono nel metodo, meno nel merito. E questo per due ragioni che provo a spiegare. La prima è che accanto alla gigantesca questione del deficit di rappresentanza, c’è un’altra ineludibile questione politica, che è quella del deficit di uguaglianza. O meglio della mancata percezione di questo deficit. In modo per me incredibile da anni chi fa politica a sinistra non coglie più l’uguaglianza come un valore prioritario, imprescindibile, e al tempo stesso non sa riconoscere le sperequazioni sociali.
Quella grande immagine evocata da Marx nel Manifesto del partito comunista di una storia dominata dalla polarità tra oppressori e oppressi, oggi sembra un mosaico antico da non spolverare se non in qualche occasione nostalgica, un testo storico da interpretare assolutamente inutilizzato come chiave del presente. La differenza tra classi, pare, non sia più un problema perché non viene percepita. E se non c’è coscienza di classe, figuriamoci come possiamo pensare che ci sia lotta, conflitto, in nome di un principio di uguaglianza.
Questa parola “uguaglianza” ricorre solo una volta e mezzo nel documento di Barca, alla fine – nelle chiose – come a chiarire in cauda che è vero sì tutta questa necessità di trasformazione della struttura del partito certo va urgentemente compiuta proprio perché la crisi ha accentuato le disuguaglianze, ma che questa constatazione non è vissuta con l’urgenza di chi sta dalla parte delle vittime, evidentemente.
La sensazione di una disuguaglianza di classe feroce invece è schiacciante per chiunque viva in Italia, mistificata nel frame di asimmetrie (la questione generazionale, casta contro cittadini, precari contro tutelati, centro contro periferia, Nord/Sud…) che nascondono (mimano al massimo) la questione di analisi di classe e la rendono in definitiva assente.
[Faccio un esempio magari demenziale, ma a me utile: quando voglio capire dov’è questa benedetta linea che separa una classe dall’altra, la penso così: c’è una parte di italiani che va dal dentista e una parte che non può permetterselo: guardo le persone che mi stanno intorno e capisco con chi ho a che fare].
E soprattutto questa opacizzazione, questa sparizione della rappresentazione della società come divisa in classi, se ci pensiamo, è il vero “discorso di destra”: tanto per il berlusconismo che pensa l’Italia fondamentalmente come una società che si regge sul collante dell’abusivismo, di un reaganismo in formato paesanissimo, tanto per il grillismo. Anche Grillo, notiamolo, non può fare a meno di riconoscere un mondo diviso davanti ai suoi occhi, ma avendo buttato a mare qualunque capacità di analisi marxista, evoca come soluzione un feticcio del valore dell’uguaglianza: quell’uno vale uno, che sembra uno slogan orwelliano uscito male. Eppure quanta cattiva efficacia.
Del resto che il Movimento Cinque Stelle abbia incarnato in questo passaggio, consapevolmente o meno, la sordina alla rivolta sociale, è un’idea che hanno espresso in maniera articolata e persuasiva i Wu Ming un paio di mesi orsono (leggi). A rileggerlo alla luce della situazione non immediatamente post-elettorale, quel post sembra una profezia avveratasi troppo in fretta e troppo bene. (Debitore dell’analisi di Wu Ming l’altra sera alla Laterza era anche il senatore della sinistra Pd Tocci, che malinconicamente alzava le braccia, come avvinto malgré soi dal pessimismo della ragione). È così insomma per raggranellare il consenso di un quarto del Paese, il Movimento Cinque Stelle si è inventato questi due feticci: quell’uno-vale-uno come feticcio che evoca l’uguaglianza, e la Rete (con le sue parlamentarie e le sue quirinarie) come feticcio che evoca la rappresentanza. Il risultato è che oggi di queste due questioni politiche urgentissime ne abbiamo delle versioni parodiche.
In più in Italia è avvenuto un altro processo, innavertito e singolare. Ci pensavo qualche giorno fa leggendo un anomalissimo articolo di Žižek (uscito in inglese sul New Statesman, tradotto in italiano da Internazionale, consultabile qui: http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2013/4/18/32814-il-semplice-coraggio-della-scelta-un-tributo-da-sinistra/). Il filosofo sloveno faceva un paradossale peana alla Thatcher perché aveva saputo incarnare le doti di un Comandante: «Dopo che gli specialisti (economisti ed esperti militari, psicologi, meteorologi) propongono le loro analisi, qualcuno deve assumersi la responsabilità più semplice e proprio per questa ragione più difficile, quella di convertire questa complessa moltitudine in un semplice sì o no». Abbozzando un bilancio della stagioni di movimenti del 2011-12 (dalle primavere arabe a Occupy), Žižek finiva con l’invocare – dopo questi mesi di rivoluzioni, partecipazione dal basso, democrazia diretta – «l’avvento di una Thatcher della sinistra: un leader che ripeta i comportamenti della Thatcher nella direzione opposta, trasformando l’intero campo di presupposti condivisi dall’elite politica odierna di tutti i principali orientamenti». Non capisco se è un mito che ho poco adorato, ma sotto mentite spoglie ecco riemergere l’ennesima versione di un partito leninista ancora più ristretto. Perché, mi chiedevo, Žižek dopo essere stato uno dei teorici di riferimento di questi anni di rivoluzioni e mobilitazioni adesso chiede questo redde rationem? Cosa solo spinge a quest’accelerazione autoritaria?
Una domanda simile me la facevo l’altro giorno leggendo del dibattito interno al Pd, perché un simile anelito mi sembrava sia oggi espresso da molti: la mania che si trovi il prima possibile una leadership convincente. Qualunque, pure Letta e il suo governo acchiappachiunque, pure Renzi con le sue comparsate da Maria De Filippi, pure Renzi più giovani turchi, pure Barca in connessione chimerica con Renzi, o Barca da solo… Santo cielo, è un desiderio rispettabile certo, verrebbe da dire se si fosse d’accordo con Žižek, ma se almeno in Italia ci fosse stata una rivoluzione. Però: se persino i referendum sull’acqua e il nucleare pare abbiano avuto la gloria effimera di una hit dell’estate per una parte consistente (tutta? quasi tutta?) della sinistra parlamentare, se le persino quel pallido tentativo di partecipazione democratica delle primarie ha rappresentato un rito del tutto sterile, perché oggi dobbiamo evocare una leadership? Che cosa dovrebbe canalizzare questa leadership? Il vuoto?
Questo che chiamerei “leninismo senza rivoluzione” oscura a sua volta due dei problemi decisivi che rimangono irrisolti per un partito di sinistra che voglia avere un futuro. Li focalizzava entrambi da Laterza l’altro pomeriggio Marco D’Eramo. Il primo è quello della constituency: ossia in nome di chi parla il Pd? Qual è il blocco sociale che rappresenta? Da decenni sembra che la sinistra italiana sia vittima di un meccanismo di sudditanza psicologica, che a tratti assomiglia a una sindrome di Stoccolma, per cui “si sente costretta a fare tutto quello che la non-borghesia non fa”: invece di stare dalla parte degli operai, dei lavoratori, dei cittadini esclusi, degli ultimi, degli oppressi, si presenta come una forza punitiva che si autoassegna il compito sporco di esercitare il bastone senza mai nemmeno più promettere una carotina: i diktat, i “lo dice l’Europa”, il bisogno di austerity e compagnia hanno fatto sì che sia stata la sinistra in Parlamento o nelle amministrazioni locali a votare tutte quelle misure che hanno creato disuguaglianza sociale, dal pacchetto Treu alla legge Fornero. Ma chi ve l’ha chiesto di stare dalla parte degli speculatori?
E ancora indice perfetto di questo meccanismo di rimozione sta tutto nella censura di qualsiasi sana, sanissima convinzione popolare, sempre ormai additata come “populismo”, quasi fosse diventata una bestemmia politica: «Vuoi la sanità per tutti? Sei proprio un populista. Vuoi la tua pensione indicizzata sull’inflazione? Ma che razza di populista! Vuoi poter mandare i tuoi figli all’università senza svenarti? Lo sapevo che sotto sotto eri un populista!» (da qui http://temi.repubblica.it/micromega-online/ben-venga-il-populismo-di-sinistra). Il secondo problema è quello dell’autorappresentazione, ossia – come volete chiamarlo – dell’ideologia o, se siete vendoliani, della narrazione. Sempre Marco D’Eramo citava un libro del generale americano David Petraeus che è stato un superbestseller negli Usa, il Marine Corps Counterinsurgency Field Manual (Il Manuale di combattimento anti-insurrezionale).
In questo libretto – sottolineava D’Eramo – qual è la chiave strategica che ci viene suggerita per sconfiggere un nemico informale: per Petreus è l’ideologia, ossia saper costruire un’ideologia più forte di quella del nemico. Ora chi ha visto la serie tv Homeland può ben capire cosa vuol dire questa indicazione, ma anche chi non l’ha vista non può non ammettere che se c’è una cosa che la sinistra ha fatto in maniera scientifica, in nome di fraintese battaglie anti-identitarie, è l’aver eliminato qualcunque rivedincazione dell’ideologia. Ecco l’altra bestemmia di cui oggi si può essere accusato dalle parti della sinistra italiana: Sei ideologico! Vuoi difendere l’articolo 18? Sei ideologico! Invochi uno sciopero generale (magari di otto ore e non di quattro)? Sei ideologico!
Questa paura del dirsi ideologici – che come sa chiunque abbia letto Ideology: An Introduction di Terry Eagleton – è una delle ideologie più pervicaci, ha avuto una conseguenza automatica e sciagurata: quella di una comunicazione penosa. Il “giaguaro” di Bersani, come “le larghe intese”, come oggi “il presidente condiviso”, capiamolo, non sono ingenue formule di politici non particolarmente carismatici, ma esprimono questa auto-censura ideologica: se cerco di essere comunicativo ma non so che dire, mi troverò nella grande palude della vaghezza, degli slogan adolescenziali, della gaffe.
Da ultimo, dunque, un consiglio. Spassionato o appassionato che dir si voglia. Un esercizio di cura della lingua. Fabrizio Barca ha scritto un buon documento che appronta una buona piattaforma di discussione. Ma in questo documento c’è un eccesso di linguaggio tecnofilo che va cambiato. Credo che una delle lezioni che più mi hanno formato verso quella cosa strana che chiamo “essere di sinistra” è stata la lezione di Tullio De Mauro sulla semplificazione del linguaggio. Riconoscendo il lavoro esemplare di Don Milani, De Mauro dagli anni ’70 in poi ha capito come la semplificazione dei linguaggi tecnici fosse fondamentale per un’educazione alla cittadinanza verso l’uguaglianza e l’inclusione sociale. Riprendiamo quella lezione, ridiamo per esempio fondi al mensile curato da Emanuela Piemontese che si chiamava Due parole, e soprattutto facciamo uno sforzo per autoeducarci.
Non è possibile iniziare un documento rivolto a un vasto numero di interlocutori incorniciando di virgolette decine e decine di parole o scrivendo per esempio alla prima pagina – oltre il famigerato “catoplebismo” spiegato venti pagine dopo – “ci sono tre caveat”; non è utile rendere ridondante il discorso con locuzioni tipo “forte presidio di governo” se basta dire “forte governo”; non è il massimo calcare la mano su espressioni non proprio cristalline come “élite estrattiva” o “mobilitazione cognitiva”. Capire a chi vogliamo parlare ci aiuterà a capire in che Paese siamo e cosa sarà questo singolare spettro chiamato sinistra che forse ancora si aggira in qualche barrio della bistrattata Europa.
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