Facciamo un esperimento? Facciamo un esperimento. Citatemi un racconto di Roma ambientato nel futuro. Non è facile, eh? Non è per nulla immediato avere un’idea di questa capitale come città avveniristica, una Roma 2025, una Roma 2050. A questa mancanza nell’immaginario di una Roma futura pensavo in questi giorni di ultimi comizi e dichiarazioni dei candidati sindaci, ultimi prima del voto, e dopo essere uscito dalla visione della Grande bellezza di Paolo Sorrentino, un film strapieno di difetti che però ha la pretesa e la capacità di dedicare al racconto visivo di Roma quasi tutte le due ore e venti che dura: piazze, fontane, parchi, vedute, chiese, ma anche artisti à la Abramović che performano tra gli archi dell’acquedotto, fenicotteri che si posano vicino al Colosseo, giraffe che passeggiano tra le rovine di Massenzio.
E ci rimuginavo anche perché qualche mese fa mi era capitato sotto gli occhi un altro film con ambizioni e esiti molto simili: avevo visto Nina di Elisa Fuksas, un’opera prima che come Sorrentino applicava virtuosisticamente la macchina da presa alla Roma monumentale dell’Eur o a quella borghese dei Parioli. Insomma mi dicevo che questa città in cui vivo da quando son nato sembra che produca da sé, che forzi il nostro sguardo – anche in chi come Sorrentino o Fuksas è così bravo a mettere a punto un’estetica personale per raccontarla – a una forma di visione nostalgica, di prospettiva passatofila, l’evocazione di una commistione di mitologie che si intrecciano l’una sull’altra (l’Impero, il Fascismo, la Chiesa, la Repubblica Romana, i palazzi umbertini simbolo dell’Unità…) senza però che da queste si possa sfuggire. Nessuna idea di una Roma futura, insomma. Nessuna visione che non sia retroflessa, per cui retrograda.
Voi direte, ma perché dovremmo stravolgere l’anima di questa città, forzarla a un immaginario estraneo? Ho provato ad andare a pescare con la memoria i ricordi di racconti e film di fantascienza ambientati a Roma. Qualcosa anche nella mia testa esiste. C’è Noi due soli (1952) di Marino Girolami, Marcello Marchesi e Vittorio Metz, in cui si ipotizza che una “bomba yota” abbia distrutto tutte le forme viventi, lasciando vagare in una Roma spettrale degli splendidi Hélène Rémy e Walter Chiari. C’è L’ultimo uomo della terra (1964) di Umberto Ragona, tratto dal racconto di Richard Matheson Io sono leggenda: con una città che non sembra Roma devastata e desertificata da un virus sconosciuto. C’è La decima vittima (1965) di Elio Petri, tratto da La settima vittima, racconto di Robert Sheckley (da poco ristampato da nottetempo): siamo in un mondo successivo alla sesta guerra mondiale, e le distese di campi bruciati della periferia così come i palazzi dell’Eur vengono trasfigurati per immaginare una città postuma a se stessa. Ma possiamo avvicinarci a noi e andarci a rivedere Eros Puglielli, Tutta la conoscenza del mondo (2001) in cui una presenza aliena trasforma la vita nullificata di alcuni abitanti della periferia di Roma Nord, oppure il thriller filorientale pieno di alieni che è L’arrivo di Wang dei fratelli Manetti (2011) oppure leggerci i libri di Tommaso Pincio, Cinacittà e Pulp Roma: scoprire una Roma investita da una infinita estate che ha costretto molti abitanti a ritirarsi nel Nordeuropa e ha trasformato la città in una specie di metropoli del crimine estremorientale. Oppure riinnamorarci – almeno a me accade ogni volta – di un personaggio che Pincio stesso omaggia: Ranxerox di Stefano Tamburini. Questo ragazzo di Talenti morto a nemmeno trent’anni, Tamburini appunto, ha sovrainciso la città delle periferie e del centro storico distrutta dall’abusivismo edilizio creando una metropoli ipertecnologica, postmorale, cyberpunk ante litteram. E esiste altro: film e libri di nicchia ancora più di quelli citati, progetti musicali come quello datati anni Novanta Aliens in Roma, opere ipersimboliche come Roma senza papa di Guido Morselli.
Ma perché cerco questo nella mia memoria esplosa? Perché le città secondo me hanno questo bisogno impudico di fantascienza? Perché – ne sono molto persuaso – solo se siamo capaci di dar corpo a utopie e distopie, a sogni e paure possiamo pensare ad agire nel presente.
E questa non è una frase detta a caso, ma mi si è chiarita in testa come una reale piccola epifania dopo aver letto un libro meraviglioso che è Una capitale sul mare di Gualtiero Bonvino e Francesco D’Ausilio, un libro di urbanistica e di intervento politico che partendo dal Progetto Litorale del 1983 (il progetto che il sindaco Petroselli immaginò per lo sviluppo a ovest della città) riflette sul futuro politico di Roma. La cosa sorprendente è che in un libro documentatissimo, iperanalitico, l’ultimo capitolo sia un lunghissimo racconto di fantascienza ambientato nell’ottobre 2030 intitolato Ho visto Roma sul mare. Quello che Bonvino e D’Ausilio fanno in coda al loro saggio non è una concessione a una vanità narrativa, ma ha un preciso significato in architettura e in urbanistica: è una tecnica di progettazione si chiama visioning. Ossia, si immagina una città fra vent’anni e si ragiona su quali dovrebbero essere i passaggi che porterebbero a quell’immagine. Per dire: mi figuro un Museo delle Civiltà del Mediterraneo a Ostia oppure un superaeroporto europeo a Fiumicino dove fare incontrare i miei personaggi, futuri abitanti di una città multiculturale – allora, quali dovrebbero essere le tappe che spingono alla realizzazione di questo tipo di opere? Insomma non ci vuole un genio per riconoscere che James Ballard o Philip K. Dick hanno ispirato centinaia di architetti e urbanisti in Inghilterra o negli States, ma forse ci vuole un briciolo di intuito in più per capire quanto la fantascienza possa essere utile non solo per una politica dei sogni ma anche per una politica di quotidiana amministrazione.
E questo si capisce prendendo appunti a partire dal libro di Bonvino e D’Ausilio, a partire dal titolo, che con una sola immagine chiave riesce a ribaltare l’idea che abbiamo di Roma. Roma ha il mare. Roma sul mare. Roma e il mare. Roma non è un grande paesone; ma potrebbe essere una capitale del Mediterraneo. Perché non si è saputo (voluto) pensare la crescita la città con questa vocazione? Guardate e mettete a confronto queste due foto del 1984 e del 2012, e spalancate gli occhi su dove è andato lo sviluppo della città: tutto a mangiarsi l’Agro Romano.
Che idee hanno invece Bonvino e D’Ausilio? Riassumiamole in un piccolo elenco che si può trarre dalla seconda parte ma dopo aver letto la prima parte (80 pagine) di analisi senza sconti della politica dei sindaci dagli anni Ottanta in poi.
1. Pensare la pianificazione urbana, progettando una città sostenibile: A) secondo la carta europea firmata a Aalborg nel 1994 – in cui si chiede esplicitamente che nell’ottica di una politica europea non si può non ragionare sulle città (dove vivono l’80% degli abitanti europei) senza fare un lungo lavoro di educazione sugli stili di vita; e B) secondo la Carta di Lipsia che chiarisce, se ce ne fosse il bisogno, che lo sviluppo delle città vuol dire riqualificazione: realizzazione di quartieri misti e dalla struttura insediativa compatta per prevenire lo sprawl, quella dispersione urbana che a Roma conosciamo assai bene, a partire da quella sentenza definitiva che Carlo Levi attribuì a Pasolini: «Attorno a Roma c’è quella cosa immensa e spappolata che è Roma».
2. Seguire una linea guida che sia perfettamente opposta a quella adottata fino a oggi da molti amministratori di Roma. «Life, space, buildings in that order», si dichiara citando il libro del 2010 dell’architetto danese Jan Gehl, Cities for the people, in cui si sottolinea con esempi perfetti, ripresi in buona parte dall’urbanistica italiana rinascimentale per esempio, perché la dimensione umana è assolutamente prioritaria nel disegnare lo spazio pubblico.
3. Credere nella qualità e non nello sviluppismo: qualità urbana (che vuol dire sostanzialmente integrazione degli interventi politici), qualità urbanistica (che vuol dire subordinare la trasformazione urbana all’interesse comune), qualità architettonica (che vuol dire un’architettura informata del contesto sociale e non progetti caduti dal cielo), qualità dello spazio pubblico (il primato dello spazio pubblico rispetto alla costruzione dello spazio privato, giusto per dire), qualità sociale (costruire una città con una serie di infrastrutture che possano generare inclusione sociale e non il contrario), qualità economica (che vuol dire valutare in anticipo e in modo sistemico gli impatti, i costi, i rischi e i benefici – non progettare una metro o una grande opera e poi chissà come andrà), qualità ambientale e energetica (il che vuol dire ridurre il consumo di suolo, e soprattutto riusare le aree già urbanizzate, e ancora più importante: integrare la politica sui trasporti con quella sull’uso del suolo), qualità culturale e paesaggistica (che vuol dire pensare una città nella conoscendo la storia fisica, sociale, culturale di quel territorio).
4. Si è inseguito per anni un modello securitario nell’immaginarsi un modello di città, che ha portato alla nascita di enclavi: i comprensori, le Torre Gaia o le Olgiate, simili ai quartieri residenziali fortificati e iperprotetti di quel film messicano di qualche anno fa, La zona. Il declino dello spazio pubblico va arrestato: ci si può leggere Richard Sennett a partire dai suoi libri anni Settanta (Usi del conflitto, Il declino dell’uomo pubblico) fino a Insieme per capire come le mancate politiche sullo spazio pubblico abbiamo eroso dal di dentro lo sviluppo della democrazia italiana. Nella civiltà delle piazze come quella italiana, è inimmaginabile il danno che questo ha prodotto. Bonvino e D’Ausilio parlano di spatial justice: l’urbanità, che è un concetto ancora più preciso della cittadinanza, implica il dovere di investire sui modi di abitare come condizione di partenza per il diritto alla città. Non escalation edilizia, ztl a caso, strisce blu a pioggia, parcheggi senza progettazione…
5. Integrare città e mobilità. Qui Bonvino e D’Ausilio puntano semplicemente alto per una città come Roma che ha il più alto numero di automobili per persona e dicono: perché non pensiamo una città che si svincoli dalla dipendenza dalle macchine? Perché non pensiamo una città transit-oriented developed, ossia una città progettata a partire dagli spostamenti (e quindi dalle relazioni sociali) e non dal risiedere? Per Peter Calthorpe, autore di The Next American Metropolis, «per Transit-Oriented Development s’intende una comunità diversificata dal punto di vista funzionale localizzata a una distanza pedonale non superiore a 600 metri da una fermata del trasporto pubblico». Seicento metri: ora ricordatevi Roma come è oggi. Immaginatevi per un secondo una città dove si può scegliere sempre se utilizzare i mezzi pubblici oppure quelli privati. Immaginatevi una città dove si può sempre andare a fare le commissioni a pranzo, prendere un film dopo il lavoro, andare in bicicletta al lavoro…
6. Iperimportante. Invertire una deriva urbanistica; la condanna di Roma. Lo sprawl (lo “spappolamento urbano”) e l’iniquità sono chiaramente due fenomeni gemelli che si alimentano a vicenda. Quello che è continuato a accadere negli ultimi anni a Roma è la segregazione spaziale di chi non può guidare o non può più permettersi la macchina o la benzina sempre più cara o i parcheggi a pagamento sempre più diffusi. Roma è diventata di fatto una città divisa in due: tra chi ha i soldi e può accedervi e chi non ha i soldi e vive praticamente relegato nei piccoli dintorni della propria abitazione.
7. Usare la rendita fondiaria per creare le infrastrutture, «prendere per conto della comunità, per l’uso della comunità quel valore che è una creazione della comunità»: insomma contrastare la tendenza alle enclosures, cercare di proseguire verso quella linea di politica anti-speculativa che mette insieme Insolera, Cederna fino a Francesco Erbani per opporsi a una serie di amministrazioni che sostanzialmente hanno creato privatizzazione delle rendite e socializzazione dei costi. Come? Non attraverso quella che Michele Martuscelli già negli Sessanta definiva “simonia urbanistica” (richiedere soldi dai costruttori dando in cambio corsie preferenziali nelle procedure, diritti di edificare in più, ammorbidimento delle regole). Ma attraverso: acquisizione di terreni, affitti a lungo termine, land banking e land readjustment. Riscoprire insomma un’etica del pubblico e dei beni comuni che sembra dimenticata in una città in cui invece si sono di fatto resi liquidi (trasferibili, monetizzabili) i diritti edificatori. Lo si è fatto con i cosiddetti Print (i piani integrati di riqualificazione che giustamente Bonvino & D’Ausilio considerano una risorsa fondamentale), ma in modo schizofrenico e poco convinto.
8. Monitorare. Quanto si è costruito a Roma negli ultimi anni? Qual è il residuo del Piano Regolatore? Può sembrare secondario, ma senza il monitoraggio della cosiddetta pipeline (quanto arriverà sul mercato nei prossimi anni), è difficile impostare politiche basate sulla cattura del valore e la negoziazione con soggetti privati basate su valutazioni immobiliari.
9. Ricompattare Roma. Ridensificarla.
10. Usare per Roma i fondi statali.
11. Investire su un reale policentrismo. C’è sempre prima da ripensare il trasporto pubblico ovviamente (con i collegamenti periferia-periferia che sono inesistenti), e poi si tratta di decentrare la Pubblica Amministrazione, di investire nella crescita economica delle periferie. Le nuove “centralità” che erano la novità del Piano Regolatore stanno fallendo nel loro ruolo. Non sono riuscite a svolgere quella funzione di ristrutturazione e di bilanciamento delle periferie. Anche qui vuol dire partire prima dalle funzioni, dai desideri, dall’immaginario, dai bisogni e poi dagli interessi economici-edilizi.
12, 13, 14… potremmo continuare… Il libro di Bonvino e D’Ausilio è una miniera di riferimenti internazionali da applicare all’urbanistica di Roma, uno strumentario ricchissimo da usare se si è stati deprivati per anni di una cultura urbanistica che ha ridotto la nostra coscienza civile all’augurio che qualcuno prolunghi l’appalto per la discarica di Malagrotta a Cerrone per non finire con le strade invase dalla monnezza.
Ma quello che potremmo fare, prima di addentrarci in tutte le proposte dettagliate, è lavorare sulla nostra fantasia e immaginarcela veramente una Roma possibile, una capitale mediterranea, una metropoli che colleghi il Sud del Mondo con l’Europa: quella che oggi è dietro i nostri occhi la capitale della cristianità o il teatro dei romanzi criminali o la cartolina per turisti o la città del generone o l’infinita borgata degradata, domani magari potrà somigliare a un pianeta da esplorare con l’Enterprise.
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