Tra magistrati e piani industriali, il futuro dell’Ilva

Parlano gli economisti Bianchi e Berta

Riva Acciaio ha confermato la cessazione da martedì 12 settembre di tutte le attività dell’azienda, esterne al perimetro gestionale dell’Ilva, relative a sette stabilimenti in cui sono impiegati circa 1.400 persone. La decisione viene motivata con il sequestro preventivo penale del Gip di Taranto. 

Riproponiamo la nostra analisi sulle prospettive dell’Ilva. 

Per l’Ilva ci sono già stati appuntamenti “decisivi” che poi si sono conclusi con un nulla o poco di fatto. Forse questa settimana, dopo il maxi sequestro miliardario disposto dalla Procura di Taranto e le dimissioni dell’intero cda Ilva, lo sarà davvero? In ogni caso è in corso al Mise un vertice tra il nuovo ministro per lo Sviluppo Economico Flavio Zanonato, il presidente della regione Puglia Nichi Vendola e l’amministratore delegato dimissionario Enrico Bondi per discutere la situazione, sempre più grave e complessa, dell’azienda. Nei prossimi giorni riferiranno all’esecutivo.

Restano alcuni punti nodali, di più ampio respiro: la difficoltà del mantenimento di comparti produttivi di base in Italia, ad esempio, o il problema dell’intervento della giustizia in settori delicati e vitali per l’economia nazionale, con il rischio di conseguenze pesanti sul lavoro e sui rapporti commerciali internazionali.

Com’è ovvio, la possibilità di una chiusura dell’Ilva avrebbe conseguenze gravi. Ogni valutazione in merito, almeno secondo Patrizio Bianchi, economista industriale, ex direttore della rivista del Mulino L’Industria e oggi assessore regionale emiliano al Lavoro e alla formazione professionale, non può prescindere dai numeri: «L’Ilva costituisce più della metà dell’acciaio prodotto in Italia, ha una funzione essenziale, originata fin dal Piano Siderurgico Nazionale». Anche se, spiega Giuseppe Berta, storico dell’economia dell’università Bocconi, «l’impianto di Taranto deve comunque passare per un radicale ammodernamento: è antistorico, vetusto. Ha 50 anni e li dimostra tutti. In Europa non ci sono uguali».

Di fronte a queste premesse, ogni decisione sull’Ilva non comprende solo problemi «di carattere produttivo, ecologico, di ambiente», ma in generale, investe – come spiega Bianchi – la questione della produzione di base: «va tenuta in Italia o meno? È un dibattito molto acceso in Europa – continua – e si fonda su una convinzione, forse non molto solida, che la produzione di base vada spostata in oriente, in Cina perlopiù. Mentre la raffinazione e il trattamento di qualità avvenga in occidente. Per fare un esempio, nel mondo della moda i grandi stilisti lavorano in occidente i tessuti grezzi, o le camicie, fabbricate in oriente. Si pensava che funzionasse, ma ha mostrato tutti i limiti di una produzione che, in ogni passaggio, deve essere integrata. La distanza crea molti problemi». E per quanto riguarda l’Ilva? Berta ha dei dubbi: «Non so se sia ancora possibile mantenere la produzione dell’acciaio. È dubbio che ci sia la convenienza economica, che si tratti di una cosa ancora alla nostra portata. Taranto, del resto, è un caso unico: non si costruiscono più aziende così grandi e così inquinanti nei centri abitati, è proprio di una visione economica sorpassata».

E proprio qui sta il nodo: quello tra lavoro e salute. La magistratura è intervenuta («facendo quello che deve fare la magistratura», sottolinea Bianchi) anche a rischio di mettere le mani su un comparto economico importante e delicato. «Non poteva fare altrimenti: quello è il suo lavoro. Piuttosto bisogna guardare all’esecutivo: adesso deve creare un piano nazionale sull’acciaio che tragga le conseguenze dal caso Ilva».

Per Berta, però, non è così semplice: «Sono molto colpito dall’idea di un consiglio di amministrazione dell’azienda deciso dalla magistratura. Sono cose complesse che richiedono competenza e capacità di visione. Così si rischia solo di nominare curatori fallimentari». Anche se, aggiunge, «l’Ilva non esiste più: e la responsabilità del disastro ambientale è collettiva, di tutti quei soggetti, dalla politica ai sindacati e alla proprietà, che non hanno voluto prendere provvedimenti». E ora, «in una città che è stata resa dipendente a un’azienda, come si è deciso secondo una visione ormai antiquata dell’industria, il nodo finisce per restare nelle mani dei magistrati».