Una fotocopia peggiorata delle elezioni politiche che restituisce l’immagine di un paese disilluso. Gli italiani affrontano la crisi con fatalismo, non si appassionano più al teatro sfinito della politica e puniscono anche Beppe Grillo, che a Roma ha perso la metà dei suoi voti ed è passato dal 27 per cento delle politiche al 13 per cento di oggi. Il primo turno delle amministrative si è chiuso, come si temeva, con un astensionismo stellare: è andato a votare il 62,5 per cento degli aventi diritto, un calo che sfiora il 15 per cento rispetto alle precedenti amministrative. A Roma ha votato il 52,8 per cento degli aventi diritto, solo un romano su due, quasi il 21 per cento in meno rispetto al 2008. In questo scenario sconfortante per la politica tout court, il Pd avanza un po’, il Pdl tiene, Grillo arretra. Ignazio Marino arriva primo con un ragguardevole 40 per cento su Gianni Alemanno, fermo quasi dieci punto indietro, e conquista così il ballottaggio per il comune di Roma dalla posizione di testa, mentre il Movimento Cinque stelle va incontro a una sorprendente debacle elettorale che conferma la percezione di un’offerta politica complessivamente piatta, come se i partiti fossero un po’ tutti uguali, come se nessuno degli attori sul proscenio fosse in grado di accendere entusiasmi, offrire una prospettiva di governo e una visione convincenti. Non viene premiata nemmeno la cosiddetta antipolitica, come se anche il voto di protesta, così forte alle recenti elezioni di febbraio, fosse anch’esso considerato inutile.
Quali le conseguenze sul tavolo da gioco della politica italiana? Quasi nessuna, per il momento. Gli equilibri rimangono congelati in un clima d’attesa. In un quadro di notevole disaffezione dell’elettorato, Pd e Pdl sono relativamente premiati e niente lascia pensare che la grande coalizione a sostegno di Enrico Letta debba essere messa in discussione in alcun modo per effetto di queste ultime elezioni. Al contrario questo risultato senza scossoni, senza sorprese, semmai un po’ sonnecchiante, regala una tranquillità non scontata a Letta e ai complicati rapporti che caratterizzano la difficile convivenza di Pd e Pdl in Parlamento. Il governo delle larghe intese, secondo tutti i sondaggi, ha il sostegno di circa la metà della popolazione e i suoi due principali azionisti sono arrivati tutto sommato vivi al traguardo delle amministrative. E’ come se la politica fosse rimasta prigioniera di una bolla trasparente, sospesa, in bilico tra una via d’uscita ordinata e una drammatica esplosione del sistema: non si sono ancora palesati nuovi attori significativi sul mercato elettorale in grado di contendere il consenso ai partiti storici e così, a questo punto, il destino di Pd e Pdl sembra legato a quello del governo di Letta. Funzioneranno davvero le larghe intese? Mercoledì sarà presentata in Parlamento la mozione d’indirizzo per le riforme istituzionali e per la nuova legge elettorale, mentre l’Italia grazie al tampone di Mario Monti è uscita con successo dal procedimento di infrazione europeo per eccesso di deficit.
Adesso Letta dovrà trasformare la mozione in un calendario martellante di interventi per rendere più efficiente il funzionamento della macchina statale, e contemporaneamente dovrà affrontare con piglio l’emergenza della disoccupazione senza tuttavia cedere alla tentazione consociativa di galleggiare con la spesa pubblica. Considerati il carattere della politica italiana, le sue pigrizie, le sue abitudini e i suoi trascorsi storici, si tratta di uno sforzo inumano. Ma il destino di un’intera classe politica sembra dipendere dalla capacità di attraversare con successo il mare tempestoso della crisi economica. E anche il significativo arretramento di Grillo in queste ultime amministrative non può che essere interpretato come la punizione per non aver saputo incarnare lui un’alternativa credibile alle larghe (e promiscue, per larghi settori del centrosinistra) intese tra Pd e Pdl. Che sarebbe successo se il Movimento Cinque Stelle avesse votato per Romano Prodi al Quirinale, con il Pd, e se avesse afferrato la mano di Pierluigi Bersani invece di chiamarlo “morto che parla”?
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