Ci sono più modi di intendere la normalità di Andrea Pirlo.
Il primo modo è quello di Cesare Prandelli. Il c.t. della Nazionale, di cui non smetterò mai di tessere gli elogi (vogliamo parlare del 4-3-2-1 contro il Messico, di come dal rombo siamo passati al pentagono a centrocampo occupandolo e dominandolo per novanta minuti, del fatto che Giaccherini trequartista nel suo sistema funziona?) e del cui buon senso capisco e apprezzo l’aspetto rivoluzionario, di cui posso solo intuire la profonda umanità che gli permette di avere un rapporto, appunto, umano con Balotelli, proprio nell’introduzione all’autobiografia Penso quindi gioco, scrive che Pirlo «unisce perché è il calcio, è il giocatore più tecnico, uno che non ha mai fatto niente di clamorosamente negativo, è l’essenza del pallone. Per quello viene riconosciuto come un calciatore globale, che a ogni tocco di palla lancia un messaggio positivo: anche uno troppo normale può essere troppo bravo». Pirlo è «il calciatore di tutti» perché così forte da essere applaudito persino dal pubblico avverso ma anche perché nonostante tutto non si è montato la testa.
A Prandelli interessa l’aspetto morale della cosa, ci sono i soldi di mezzo e la responsabilità di chi viene osservato da milioni di persone, ma dato che stiamo parlando di un libro la è anche una poetica opposta a quella che al momento sembra andare maggiormente di moda. Se prendiamo le due autobiografie sportive più interessanti degli ultimi tempi, quella di Ibrahimovic e, ovviamente, quella di Agassi, il meccanismo di immedesimazione sembrerebbe l’inverso. L’idea di base è che a interessarci davvero non sia il successo in sé ma i problemi, gli errori e le difficoltà che hanno intralciato la via al successo dei nostri eroi, e il talento con cui le difficoltà vengono superate. Un’idea affascinante ma in fondo un po’ banale e non vedo perché, ad esempio, la carriera di Pirlo, se raccontata bene, non dovrebbe essere tanto interessante quanto quella di Ibra. Anzi, il poco che sapevo di Pirlo lasciava presagire che la sua potesse essere la grande autobiografia di uno sportivo borghese. Una cosa tipo: come diventare grandi con classe, come fare il calciatore senza essere per forza un coatto, come vincere un Mondiale producendo vino nella tenuta di famiglia.
L’autobiografia di Pirlo però ha deluso questa mia aspettativa. In tutte le 137 pagine si accenna solo una volta alle sue origini familiari, e solo per chiarire, col massimo rispetto sia chiaro, che non è di etnia Sinti (da Wikipedia: «una delle tante etnie della popolazione romanì, altrimenti chiamati zingari, termine che oggi ha assunto una sfumatura dispregiativa») come a un certo punto si diceva:
«Mi sono fatto un’idea precisa di come possa essere nata una voce del genere. Oltre che della produzione del vino, mio padre Luigi si occupa anche di siderurgia, attraverso la Elg Steel, un’azienda in cui lavora tra gli altri mio fratello. Siccome il commercio e la lavorazione dei metalli rappresentano tradizionalmente il lavoro più diffuso tra i Sinti, qualcuno ha voluto fare uno più uno e dal risultato, da un due molto sporco, è nata quella serie di articoli strampalati».
Il modo in cui Pirlo intende la normalità è sì una retorica opposta a quella sono ricco e famoso e faccio come cazzo mi pare perché questo mi rende ancora più ricco e famoso, ma a suo modo anche Pirlo è abbastanza estremo. Ecco come descrive il momento precedente al rigore calciato nella finale dei Mondiali contro la Francia il 9 maggio 2006:
«Ho sospirato. Un sospiro lungo, intenso. Quel respiro profondo era il mio, ma poteva essere dell’operaio che fatica ad arrivare alla fine del mese o dell’imprenditore ricchissimo e un po’ stronzo o dell’insegnante o dello studente o dei vecchi emigranti che in Germania non ci hanno lasciati soli o della sciura milanese o della puttana all’angolo della strada. Ero tutti loro».
La normalità di Pirlo è estrema nel senso che per lui essere normale significa essere tutti noi.
Adesso, lasciamo perdere gli stereotipi un po’ svilenti che Pirlo utilizza, o forse Alessandro Alciato, il giornalista Sky che lo ha “aiutato” a scrivere il libro. E la confusione dei piani che fa prendere al calcio una piega consolatoria e francamente un po’ ridicola (il sospiro dell’operaio che non arriva a fine mese, Pirlo?). Il problema con questo tipo di normalità è che in realtà non esiste. Che persino Pirlo deve ammettere in fondo di essere eccezionale. Ma dato che la parola eccezionale oggi ha assunto una sfumatura dispregiativa ecco che quella di Pirlo diventa quanto meno una normalità problematica.
In questo senso come non provare tenerezza quando ci racconta delle difficoltà avute da ragazzo perché era troppo bravo?
«Fin da piccolo sapevo di essere più forte degli altri e per questo hanno iniziato presto a parlare tutti di me. Troppo.»
I genitori di compagni e avversari dicevano che si prendeva per Maradona:
«Cazzo, Maradona. Come dare del Chechi a un ginnasta o del Jordan a un cestista o della Campbell a una top model o del Watusso a Berlusconi. (…) Non potevo che difendermi stupendo. Facendo esattamente quello di cui venivo accusato. Segnato da una colpa inesistente».
In un clima ostile che lo rendeva triste,(«Mi fermavo e piangevo. Abbattuto, depresso, soprattutto ancora adolescente. E a un adolescente queste cose non dovrebbero capitare»), il giovane Pirlo reagiva con coraggio:
«Io contro il resto del mondo, io contro i resti del mio mondo. Assomigliavo a un crociato buono. Non volevano giocare con me? E allora io giocavo da solo, tanto avevo le armi per farlo. In dieci non riuscivano a segnare, io da solo sì. Li dribblavo tutti, compresi quelli che vestivano la mia stessa maglia».
Nonostante i vertici drammatici («Mi consideravano l’uomo nero, l’assassino del loro futuro») di questa parte un po’ à la Ibra, nonostante Pirlo ci abbia appena detto che da piccolo anche se i compagni non gli passavano la palla lui era in grado di prendersela e vincere contro tutto e tutti, e questo si presume non una volta sola, ma per anni, poche pagine dopo (tre, per la precisione) ci tiene a chiarire:
«Il fatto è che ancora oggi non sono del tutto convinto di essere unico, o insostituibile, ma non riesco a spiegarlo a chi mi circonda, a coloro che sono abituati a studiarmi con estrema superficialità».
Per questo più avanti dice:
«Io mi sento più il Pirlo del pallone calciato centrale al Mondiale del 2006 che il Pirlo geniale del cucchiaio agli Europei del 2012 contro l’Inghilterra».
La questione della normalità si fa ancora più intricata se si pensa che Pirlo comincia l’autobiografia dal giorno in cui il Milan nella primavera del 2011 gli propone un solo anno di prolungamento contrattuale e l’allenatore, Allegri, dice di vederlo più come esterno in un centrocampo a tre che come regista davanti alla difesa. Problemi pratici, tecnici, interessanti, su cui prende il sopravvento il desiderio di rivalsa di Pirlo che non è piaciuto ai tifosi rossoneri e stride proprio con la sua normalità. O quanto meno è paradossale quando Pirlo, che chiama Galliani «il Signor Bic» o «l’uomo delle penne» perché dopo dieci anni di rapporto lo congeda regalandogliene una (in realtà una Cartier), dice che in fondo deve ringraziare proprio il modo in cui il Milan lo ha trattato, per averlo fatto sentire: «una persona normale. Un calciatore da sei in pagella». Una normalità che fa ironia sulla normalità, che è qualcosa di più della normalità stessa.
«Per un breve periodo ho vissuto proiettato dentro una realtà virtuale, ero l’altro Andrea Pirlo, quello per cui volevano farmi passare, ciò che avrei potuto essere ma che invece non sono diventato. Mi hanno trattato come uno dei tanti, facendomi tirare il fiato, ottenendo però l’effetto contrario, alimentando la convinzione esterna che io fossi qualcosa di più».
Ad alcuni il libro di Pirlo è sembrato persino arrogante, scritto in chiave anti-Milan, un elenco dei suoi possibili trasferimenti (Real Madrid, Barcellona, Chelsea, Roma) condito di gossip. In effetti quando racconta che nel 2006 sarebbe dovuto passare al Real Madrid è un po’ ingiusto:
«Ha più fascino del Milan, più futuro, più appeal, più tutto, incute timore negli avversari a prescindere. Comunque, al termine di quella stagione mi sono consolato vincendo la Champions League. Poteva andare molto peggio».
Voglio dire, la sua seconda Champions League, due anni dopo la disfatta di Instanbul, e la considera un premio di consolazione per non essere andato al Real Madrid (e omette anche la Coppa del Mondo per Club immediatamente successiva).
Ma anche questo in un certo senso è normale. Il libro di Pirlo è pieno di nomi famosi come ognuno di quelli che in libreria compra il libro di Pirlo si aspetterebbe. E Pirlo, anche se a guardare le sue interviste non sembra, è un tipo spiritoso che non ha paura di offendere qualcuno dei suoi amici o ex-compagni con una battuta. Anche se io personalmente mi aspettavo un libro diverso (ad esempio: non parla mai di tattica o di come lui vede il gioco, non una parola su come o chi – Mazzone, Ancellotti, lo stesso Pirlo – abbia avuto l’influenza maggiore sul suo cambio di ruolo da trequartista, per cui forse sarebbe rimasto una delle tante meteore del calcio italiano, a playmaker, all’argomento dedica solo una riga, sempre in contrapposizione all’idea di Allegri di spostarlo sui lati, in cui dice di essere come un pesce che «quando il mare è profondo respira, se lo spostano sotto il pelo dell’acqua si arrangia, ma non è la stessa cosa») qualche lettore deve aver apprezzato la normalità con cui Pirlo dice di essere un pirla: «Un “cazzaro”, come direbbero i miei due amichetti romani» (cioè De Rossi e Nesta).
«Mi frega la faccia, con l’espressione sempre uguale, ma il bello sta proprio lì. Invento discorsi strampalati, prendo per il culo i miei compagni però tutti pensano che stia dicendo cose serie. Non se ne accorgono e mi diverto un mondo.»
Ecco alcuni aneddoti divertenti, definizioni e battute tipo quella di Berlusconi e i Watussi che si trovano nel libro di Pirlo che in fondo è solo la normale autobiografia di un calciatore ma in cui Pirlo mostra la sua vera faccia ai tifosi che lo mettono sul piedistallo:
- su Calciopoli:
«A un certo punto ho iniziato ad avere un sospetto: forse John Lennon non era stato ucciso da Mark David Chapman, ma da qualche dirigente del Milan. Un puttanaio mai visto (…)».
- sul rapporto col suo agente nel periodo in cui sembrava potesse andare al Real Madrid:
«Sembravamo due innamorati, io e Tinti, due adolescenti con l’opzione “You and Me” sul telefonino».
- su suoi hobby:
«Dopo la ruota, è la Playstation la migliore invenzione della storia».
- su Ibrahimovic:
«Un matto a orologeria caricato come una molla dal suo procuratore (il mitico Mino Raiola)»
- sul Barcellona di Guardiola:
«Filosofia da oratorio (“Il pallone è nostro e ce lo teniamo noi”) abbinata a sincronismi orchestrati da Dio in persona, una specie di Rolex con le batterie di uno Swatch. Raffinato e di lunghissima durata».
Oppure:
«Guardiola abita nell’angolo zen della Playstation, la parte bianca dell’hard disk».
- su Gattuso:
«Gattuso arrivava, si lavava i denti, indossava il pigiama leopardato, si coricava, prendeva un libro e guardava le figure».
- sugli esiti della volta in cui De Rossi ha scaricato un estintore su Gattuso che dormiva riuscendo poi a chiudersi in camera lasciando però Pirlo fuori a prenderle:
«Quando alle tue spalle c’è Gattuso che ti vuol fare del male, puoi correre finché vuoi, ma alla fine in qualche modo riuscirà a prenderti. Che tu sia gazzella o leone. De Rossi, con la serratura ben chiusa, faceva lo spiritoso: “Cosa sono questi rumori? Li ho già sentiti nei film di Bud spencer e Terence Hill…”. Era Rino che mi stava facendo vedere la sua collezione di schiaffi».
- sulla grinta di Antonio Conte:
«Una cosa in particolare era chiarissima: aveva un diavolo per capello, e il se il capello era finto, il diavolo no, era verissimo, di un materiale non riproducibile».
- sulla scaramanzia di Gilardino:
«Nella sua sacca, oltre al corredo del perfetto calciatore – accappatoio di Dolce & Gabbana, ciabatte di Dolce & Gabbana, completo di Dolce & Gabbana, mutande di Dolce & Gabbana, occhiali di Dolce & gabbana, profumo di Dolce & Gabbana e gel dell’Oreal, solo perché Dolce & Gabbana non lo prevedono in catalogo – infilava sempre un paio di scarpe da calcio vecchie, brutte, rotte, con i tacchetti svitati e la pelle che puzzava. Un reperto archeologico. Però erano pulitissime, tenute come un tesoro. Le lucidava, le accarezzava, a volte ci parlava e le baciava. Roba da manicomio».
- su Park che lo ha marcato stretto quando ha giocato contro il Manchester United:
«Park Ji-sung, il primo coreano della storia a scherzare con il nucleare, nel senso che sul campo viaggiava alla velocità dell’elettrone». - (E qui posso aggiungere che in generale Pirlo si mostra insofferente verso quel tipo di giocatore che scende
«in campo senza dignità, per distruggere e non per costruire, disposto a fare una pessima figura purché riuscisse a farla fare anche a me»).
- in più di un’occasione Pirlo ci dà la sua opinione su film o musica:
«Grano rosso sangue, il peggior film che abbia mai visto»; - sull’inno di Edoardo Bennato e Gianna Nannini per Italia ’90:
«è sempre attuale, anche dopo ventidue anni, come le canzoni di Lucio Battisti. Immortale lui, immortali le sue emozioni»; - e parlando di Gattuso, una definizione simpatica (e discutibile) di Pirlo si combina con un giudizio di gusto di Pirlo:
«L’ho sempre visto come un personaggio di Woody Allen, il regista che in assoluto mi piace di più».
-
ah, e poi Pirlo ci tiene a dire la sua su vari argomenti, tipo il calcioscommesse:
«Per quanto riguarda la serie B e la serie C le istituzioni dovrebbero prendere una decisione drastica: rendere impossibili le puntate sulle partite di quei campionati»; -
sulla moviola in campo:
«Il no alla tecnologia è da Terzo Mondo dello sport»; -
o sull’Italia in generale:
«una macchina assolutamente imperfetta, zeppa di difetti, mal guidata, vecchiotta, eppure incredibilmente unica. L’Italia è un paese che ami proprio perché è così»,
un paese di cui, quando indossa la maglia della Nazionale, sente di essere parte come un
«ingranaggio neanche troppo grande».
Tutto questo (e che Matri è ipocondriaco, la storia di Inzaghi che va spesso al bagno perché mangia gli omogeneizzati, la sfuriata di Lippi durante i Mondiali del 2006 perché qualcuno parlava troppo con i giornalisti: «siete delle merde, mi fate schifo», e lo spogliatoio intero che guarda in direzione proprio di Inzaghi) si era capito anche dalle anticipazioni uscite sui giornali e dalla presentazione in diretta Sky, e giuro che l’elenco qui sopra è solo una parte degli aneddoti che chi compra il libro di Pirlo in cerca di questo genere di cose può trovare.
Da parte mia, ripeto, sono deluso che la biografia di Pirlo non abbia inaugurato una nuova tradizione di biografia sportiva borghese. L’impressione che ho avuto leggendola è che il calcio sia un mondo chiuso, di cui sappiamo pochissimo perché le interviste sono sempre tutte uguali, i giocatori si parlano in campo con la mano davanti alla bocca e quando scrivono libri ci raccontano delle loro scaramanzie e abitudini alimentari anziché parlare di tattica. Un mondo tutto sommato noioso e privo di una sua cultura.
O, forse, Penso quindi gioco è il memoir perfetto di un calciatore parte di quella generazione arrivata alla maturità fisica e mentale nei primi 2000, una generazione vincente (Europeo Under ’21 nel 2000, la Serie A dei tempi migliori, il Mondiale tedesco) senza conflitto sociale, senza lotta di classe, senza recessione, senza neanche vere e proprie distinzioni geografiche o razziali, una generazione di italiani molto diversi fra loro ma sopratutto molto italiani che quando non gioca finali di Coppa del Mondo al posto di tutti noi sta giocando alla playstation o facendosi gli scherzi in albergo tipo classe in gita.
Twitter: @DManusia
Andrea Pirlo, Penso quindi gioco, con Alessandro Alciato, Mondadori, 144 pagine, € 16,00