Crisi, peggiora il benessere emotivo di chi lavora

La ricerca Edenred-Ipsos in sei Paesi Ue

A soffrire emotivamente la recessione economica in tutta Europa non è solo chi perde il lavoro. La crisi colpisce anche chi un impiego lo ha. Lo racconta l’ultima edizione del Barometro Edenred-Ipsos, Benessere e motivazione sul posto di lavoro che mette a confronto le opinioni dei lavoratori dipendenti di sei nazioni (Belgio, Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito) e la loro variazione tra 2008 e 2013 (Il campione coinvolge 7200 lavoratori).

«Per benessere lavorativo intendiamo un concetto formato da più elementi, quasi tutti emozionali», dice Marco Salamon, il ricercatore italiano che ha seguito il rapporto. «Abbiamo misurato elementi come la soddisfazione dei lavoratori, la preoccupazione per la perdita dell’impiego, la fedeltà all’azienda». Per scoprire che «la preoccupazione dominante è quella per la stabilità dell’impiego». Ma tra le note forti del rapporto, emerge anche la rivendicazione di una fedeltà “per mancanza di alternative” verso il datore di lavoro e la maggiore o minore capacità dei modelli nazionali di alimentare la motivazione dei dipendenti, nonostante la crisi.

I grafici mostrano una crescita netta della preoccupazione per il mantenimento del posto di lavoro in tutti i Paesi tranne la Gran Bretagna, Germania compresa. È la prima preoccupazione per il 59% dei dipendenti spagnoli e per il 50% di quelli italiani. «Non è strano che la paura di perdere il posto di lavoro cresca anche in Germania, nonostante sia il Paese con il tasso di disoccupazione più basso tra i sei, (5,4% contro il 26,2% della Spagna e l’11,7% dell’Italia)», spiega Salamon. «Si tratta di fattori emozionali in cui tutto è relativo. Se lavoro in un’azienda che non ha mai licenziato nessuno negli ultimi cento anni e d’improvviso viene lasciata a casa anche una sola persona, è ovvio che scatti il panico». 

Il professor Reyneri, docente di Sociologia presso l’Università Bicocca di Milano e membro della commissione incaricata di compilare il rapporto Benessere equo e sostenibile dell’Istat, offre un’altra spiegazione al dato. «In Germania il tasso di disoccupazione è costante nelle diverse fasce d’età, a differenza ad esempio di Spagna e Italia dove è maggiore il tasso di disoccupazione giovanile. Questo paradossalmente fa sì che la disoccupazione dei 40-50enni sia superiore o pari alla nostra considerando la stessa fascia d’età», spiega. Mentre sottolinea come la percezione della sicurezza del posto di lavoro sia sempre legata al tasso di disoccupazione e non, ad esempio, alla maggiore presenza di contratti a tempo determinato. 

Ma nel rapporto emerge anche il fenomeno della lealtà all’azienda “per mancanza di alternative”loyalty by default») accompagnata da un’insoddisfazione per la situazione professionale molto più elevata rispetto allo scorso anno. Cresce solo in Germania il numero di lavoratori che dice di aver pensato e programmato il licenziamento e la ricerca di un nuovo impiego. Mentre aumentano dal 19 al 23% i dipendenti italiani che non hanno assolutamente intenzione di cambiare lavoro.

Ad essere più soddisfatti del proprio lavoro sono belgi (75%), tedeschi (71%) e inglesi (61%), anche se il dato è in calo in tutti e tre i Paesi. All’ultimo posto Spagna (53%) e Italia (57%). Interessante un focus sul dato nostrano: se la Penisola assiste a un crollo della percentuale di lavoratori soddisfatti tra 2008 e 2012 (dal 56 al 48%), nel 2013 la percentuale sale al 57 per cento, superando il livello del 2008. «Ci siamo accorti della crisi nel 2012 – spiega Salamon – E da quel momento chi un lavoro è riuscito a mantenerlo o a trovarlo è diventato più felice di averlo». «È una spiegazione sociologica plausibile – ribatte Reyneri – ma occorre andare cauti. Anche perché lo stesso andamento dovrebbe vedersi pure in Francia, ad esempio, Paese dove le cose non vanno tanto meglio che da noi». 

Più motivati se l’ambiente di lavoro è migliore

In Germania e in Belgio, dove «i lavoratori dipendenti sono coinvolti nelle scelte dell’azienda, e il benessere del dipendente, compresi i rapporti con i superiori, è parte della cultura aziendale», spiega Salamon, la demotivazione è minima (il 22% in Germania e il 27% in Belgio).
Diverso il caso della Gran Bretagna, il cui modello più «opportunista, si basa su un forte distacco fra il lavoratore dipendente e la sua azienda». Ma dove sono presenti, spiega il rapporto, «politiche di gestione delle risorse umane particolarmente attive in materia di benessere in azienda e crescita professionale». Tanto che il 40% dei lavoratori britannici assegna alla propria qualità di vita sul posto di lavoro una valutazione da 8 a 10 (contro il 23% di quelli francesi).

In entrambi i modelli, continua il rapporto, «i responsabili diretti godono di approvazione in merito alla capacità di rispettare gli impegni (il 64% dei dipendenti belgi rispetto al 58% di quelli francesi), di essere attenti alle aspettative (il 60% dei dipendenti tedeschi rispetto al 49% di quelli italiani), di investire nello sviluppo delle competenze (il 55% dei dipendenti inglesi) e di valorizzare la performance collettiva (il 66% dei dipendenti tedeschi rispetto al 49% di quelli italiani).

Diverso il caso dei Paesi mediterranei, Italia in primis, dove, dice Salamon, «la relazione tra dipendente e superiore è lasciata interamente alle capacità personali del singolo e dove scarseggiano politiche attive a favore del benessere del lavoratore».