Negli ultimi mesi la situazione in Libia è andata via via complicandosi. Se solamente questo inverno il Paese sembrava certamente attraversare un periodo difficile, ma si potevano notare comunque diversi elementi positivi, tra tutti la stabilità del governo di Ali Zeidan e il processo di assimilazione delle milizie sotto l’autorità nazionale, pochi mesi dopo a prevalere sono certamente i motivi di pessimismo. La legge sull’isolamento politico (una sorte di de-baathificazione irachena) che ha sostanzialmente estromesso buona parte della classe dirigente del paese, il presidente del Congresso Mohammed al-Megarief e circa il 30% dei parlamentari, è stata adottata dal parlamento stesso sotto l’esplicita minaccia di gruppi di miliziani armati.
Nulla di democratico quindi, in un Paese nel quale lo stato diritto ancora non esiste e l’autorità centrale di Tripoli, di fatto stenta a governare anche solo Tripoli e Bengasi. In questa situazione caotica i gruppi jihadisti, più o meno collegati ad Al Qaeda, stanno conducendo una campagna di intimidazione che è stata resa evidente dagli attentati ai danni delle ambasciate francese e italiana dell’ultimo mese.
I jihadisti non sembrano aver bisogno in Libia di una grande escalation terroristica – che oltretutto finirebbe per alienare la causa presso la popolazione – ma stanno semplicemente adottando la tattica dell’infiltrazione: sono all’interno delle due formazioni di milizie più importanti sotto il “controllo” del governo, il Libya Shield e il SSC; dominano il parlamento sia con pressioni esterne che con la presenza di forze salafite al suo interno; e tengono sotto scacco il fragile governo di Zeidan. Il Fezzan, la regione più a sud, sembra diventato l’hub delle formazioni terroristiche che operano nel Sahara, come AQIM. LA Cirenaica ospita basi di addestramento di jihadisti che si dirigono poi sul fronte siriano.
I Paesi europei e gli Stati Uniti sono decisamente preoccupati. Il presidente statunitense Obama ne ha parlato telefonicamente al presidente del Consiglio italiano Enrico Letta poco più di una settimana fa chiedendo all’Italia un ruolo di primo piano nella stabilizzazione del paese. Un passo politico – forse inatteso – che la nostra diplomazia deve trasformare in una carta da giocare: l’Italia è il paese che ha maggior esperienza in Libia, non solamente per un poco glorioso passato coloniale, ma anche e soprattutto per la capacità avuta negli ultimi sessant’anni di ricreare un clima di amicizia che ci ha grandemente favoriti anche sul piano commerciale. Obama è preoccupato che ulteriori disordini e attentati (quello dell’11 settembre scorso costò la vita all’ambasciatore americano Stevens) espongano alle critiche dei repubblicani la sua amministrazione. Hillary Clinton ne è rimasta scottata.
Allora ecco qualche spunto per cercare di salvare la situazione in Libia:
• Capitalizzare l’endorsment statunitense. Sul piano politico è essenziale che l’Italia torni ad essere un attore di primo piano. La nostra diplomazia a Tripoli è in grado di avere un ruolo di guida nei confronti dell’atteggiamento occidentale nel paese. Deve essere supportata a livello politico: la richiesta di aiuto statunitense deve favorire il ruolo di leadership dell’Italia in un rinnovato tentativo di stabilizzazione del paese anche nei confronti dei partner britannici e francesi. È un lavoro non facile per il ministro Bonino.
• Più Unione Europea. L’errore della politica estera di Berlusconi è stato quello di giocare le nostre relazioni privilegiate solo sul piano bilaterale, dimenticando la politica multilaterale e finendo per alimentare gelosie. La Ue sta iniziando una missione per il controllo delle frontiere libiche. Non basta, ci vuole maggior impegno. L’Italia deve premere per un maggior coinvolgimento nello state-building del paese. Lo stato non esiste, la distribuzione della rendita petrolifera da parte del governo non può bastare. Il libico deve cominciare realmente a percepire che la nuova libertà gli fornisce maggiori opportunità e, potenzialmente, maggior benessere.
• Sicurezza. Il punto più delicato della questione. Il governo Zeidan sta cercando di creare alcune forze a se fedeli e ha chiesto aiuto all’Occidente. È una strada impervia, che di fatto rinuncia all’assimilazione delle milizie e spinge verso un nuovo possibile confronto tra forze fedeli al governo e milizie esterne (perlopiù radicali e sotto la protezione della “jihad” internazionale). Dovrebbe essere l’ultima risorsa. La distribuzione della rendita da parte dell’autorità centrale alle milizie dovrebbe avere maggiori condizionalità. Va favorito, dove possibile, il legame territoriale: le municipalità devono poter controllare le milizie (che si trasformerebbero in polizia locale). I radicali islamici sono fortemente contrari agli elementi di “democrazia dal basso” dei consigli locali, mentre invece il tessuto tribale e famigliare libico potrebbe in qualche misura favorirli.
• Un nuovo patto sociale. La Libia ha bisogno di nuovo patto sociale e di un vero processo di riconciliazione nazionale. L’Italia deve premere per questo: il governo e il Congresso libico vanno sensibilizzati. Vanno recuperate le relazioni con la Fratellanza musulmana. Questa ha tenuto sinora posizioni troppo ambigue sia sul ruolo delle milizie che sulla questione della legge islamica. Ha favorito la legge sull’isolamento politico con la chiara intenzione di vincere “a tavolino”. Chi sono i protettori internazionali della Fratellanza libica? Il Qatar, i paesi del Golfo? È necessario coinvolgerli. Bisogna che le scadenze elettorali siano più chiare (quando si voterà per la Costituente?) e bisogna favorire una completa riorganizzazione delle forze laiche che devono superare la débâcle della legge sull’isolamento politico che ne può decapitare i vertici. Si può pensare di instaurare provvisoriamente la Costituzione del 1951?
• Recuperare i tuareg. Il processo di riconciliazione nazionale libico deve ricominciare da un primo e importante passo: le tribù tuareg, le uniche in grado di qualche forma di controllo del deserto e dei porosi confini libici, devono essere nuovamente integrate nella società libica.
Non è affatto un compito facile, bisogna rendersene conto. Il 5 luglio Zeidan sarà a Roma per un vertice tra i due paesi. Nel febbraio 2011, alle prime proteste a Bengasi, avevamo individuato tutti i rischi di instabilità in Libia. Una volta caduto Muammar Gheddafi la vera alternativa era il vuoto di potere, il caos. La Nato ha vinto la guerra, ma per l’ennesima volta sembra perdere la pace. Ci vuole più impegno, soprattutto politico.