Festival musicali, perché in Spagna tirano e da noi no?

Due modelli diversi, due diversi destini

Oltre 170mila presenze (contro le 147mila del 2012), otto palchi (con altre otto location cittadine utilizzate per gli eventi collaterali), più di centoventi artisti coinvolti: questi i numeri dell’edizione 2013 del Primavera festival di Barcellona, svoltosi dal 22 al 26 maggio, e da qualche anno il più importante evento europeo dedicato alla musica indipendente.

Categoria, quella della musica indipendente, ormai piuttosto elastica e opinabile, visto che gli artisti coinvolti spaziano dalla world music all’underground d’autore ormai affermato presso il pubblico generalista. Particolarmente nutrito, nel primo caso, il contingente africano, con i maliani Tinariwen e la loro commistione di blues e tradizione tuareg, la star del jazz etiope Mulatu Astatke, portato alla notorietà internazionale dal film Broken flowers, l’Orchestre poly-rhythmo de Cotonou, formazione del Benin tornata in attività dopo decenni grazie all’interesse suscitato da una serie di antologie dedicate al funk africano. Mentre Nick Cave è tra i rappresentanti dell’underground d’autore. E non sono mancate superstar acclamate del pop britannico come i redivivi Blur.

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I maliani Tinariwen commistione di blues e tradizione tuareg

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Mulatu Astatke, gruppo etiope di musica jazz in una esibizione del 2011

Indipendente in senso più generazionale e attitudinale che strettamente stilistico dunque, con tuttavia una innegabile predilezione per l’universo “indie”, rappresentato da numi tutelari quali Daniel Johnston e gli Shellac di Steve Albini, questi ultimi veterani della manifestazione, e dai nomi nuovi più in vista, selezionati con la collaborazione di partner quali Atp (festival britannico divenuto nel tempo anche promoter ed etichetta discografica) e la statunitense Pitchfork, rivista online di riferimento fondata nel 1996 e arrivata a un milione e seicentomila contatti unici al mese.

Una direzione artistica piuttosto chiara ma anche particolarmente eclettica e trasversale, aperta alla contaminazione: c’è chi viene per ascoltare le sinfonie di rumore dei My Bloody Valentine, uno dei nomi più attesi, ma c’è anche chi viene per ascoltare il metal sperimentale di Neurosis e Om, l’hip hop del Wu-Tang Clan, l’elettronica di The Knife, gli esoterici e cameristici Dead Can Dance; e se esistono inevitabilmente anche qui parrocchie e parrocchiani è facile abbandonarsi alla curiosità e scoprire nuove realtà. Il festival è una esperienza totalizzante e tutto quanto concorre a renderla memorabile, incluse rivelazioni inattese e discussioni tra fan più o meno oltranzisti.

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L’hip hop del Wu-Tang Clan

La capacità di creare e far crescere nel corso del tempo partnership e di sinergie è senz’altro una prima chiave di lettura per il successo del Primavera (la prima edizione, nel 2001, aveva portato sotto i palchi catalani appena settemila persone), un successo che sul finire dello scorso anno pareva allontanarsi a vista d’occhio, con voci di fuga dalla Spagna e di tagli dovuti a una crisi economica che nella penisola iberica, come si sa, ha colpito con particolare forza.

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Le sinfonie di rumore dei My Bloody Valentine

Il bilancio è stato invece decisamente positivo, con una ottimizzazione di spazi e tempi che non ha sacrificato nulla alla godibilità e al prestigio, un incremento degli spettatori e gli abbonamenti (al costo di 180 euro) per la prima volta in dodici anni esauriti con largo anticipo. Durante la serata del venerdì è stata confermata per il prossimo anno la location, ed è stato annunciato il primo headliner dell’edizione 2014: gli americani Neutral milk hotel, classico esempio di gruppo di culto inattivo per anni che nel mondo circostante quasi non esiste e qui è invece in grado di attirare decine di migliaia di persone, come dimostra il tutto esaurito, lo scorso anno, in occasione dell’esibizione del leader della band Jeff Mangum nello spazio dell’Auditori.

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I Neutral milk hotel, la rock band americana di Ruston

Tralasciando il contributo essenziale di grossi sponsor quali Heineken (quest’anno il marchio principale), Adidas, Ray-Ban, Mini, Red Bull e Jack Daniel’s, fondamentale ma legato essenzialmente alla crescita costante dell’evento e delle sue potenzialità economiche, una ulteriore carta vincente è rappresentata dal poter disporre di uno spazio enorme come quello del Parc del Forum (si parla di più di 70mila metri quadri), area fieristica realizzata nel 2004 in prossimità del mare, distante dal centro ma facilmente raggiungibile, anche a tarda notte tramite navette (poche e affollate a dire il vero) e taxi piuttosto economici. Teatro del festival fin dal 2005, è lo spazio ideale (lontano dalle abitazioni ma non troppo isolato) per trasformare l’area in un vero e proprio villaggio-fiera a sé stante: una ruota panoramica, abbondanza di chioschi con cibi e bevande (anche se non tutto è di qualità ed esattamente economico), bancarelle con dischi (ampio spazio, come sui palchi del resto, viene dato alla scena indipendente locale), magliette, poster artistici e addirittura avveniristici tappi per le orecchie.

E l’Italia? Se si parla di pubblico pagante, le presenze sono aumentate notevolmente dalla scorsa edizione, facendo della comunità tricolore la terza dopo inglesi e francesi, segno che forse l’assenza di una cultura di questo tipo nel nostro Paese non è imputabile ad una assenza di domanda. Se si parla di addetti ai lavori, la presenza di A Buzz Supreme e Sfera Cubica, con il compito di tenere i contatti con i media italiani e portare sui palchi del Forum alcune della nostre realtà più interessanti (quest’anno è toccato a Blue Willa, Honeybird & The Birdies e Foxhound), indica se non altro il tentativo di confrontarsi con un modello di imprenditorialità culturale funzionante e si spera importabile. 

Al di là delle perplessità legate all’evoluzione della musica pop (c’è chi si chiede se la presenza di numerose band riformatesi in vista di questo o quell’anniversario, dopo magari essersi sciolte vent’anni prima tra carte bollate e sguardi in cagnesco, non rappresenti in qualche modo il tramonto di una scena musicale ormai incapace di immaginare un futuro che non sia legato al riciclo di idee e codici preesistenti e alla propria “museizzazione”), il Primavera sound dimostra, al di là della posizione strategica della Spagna dal punto di visto turistico, che è possibile immaginare e mettere in pratica un solido modello culturale di festival rock, senz’altro perfettibile ma comunque vincente.

Ci vogliono anni, lo sviluppo di un know how imprenditoriale adeguato, il consolidamento di una cultura festivaliera (che come abbiamo visto esiste, perlomeno in nuce), adeguati investimenti da parte delle amministrazioni locali e dello Stato, quantomeno nella fase di lancio, e poi è possibile innescare quel circolo virtuoso che ha permesso al Primavera Sound di consolidarsi e crescere, diventando un marchio che funziona al di là dei nomi coinvolti e sa fidelizzare il proprio pubblico. Un modello di riferimento che si è già iniziato a esportare: si è infatti svolto in questi giorni, a Oporto, la seconda edizione dell’Optimus primavera sound, spin-off in terra portoghese del festival che ha in comune con l’evento principale un buon numero di nomi.

Twitter: @ABesselva

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