Sono come due mine pronte ad esplodere, separate da una morbida boa di gomma che sulla superficie dell’acqua osserva questi suoi pericolosi vicini pronti alla detonazione e che dunque, comprensibilmente, giudica la situazione piuttosto incomoda e incerta, ma tuttavia non ancora insostenibile.
Da una parte c’è Silvio Berlusconi, inguaiato con la giustizia, moderato in pubblico e minaccioso in privato. Dall’altra c’è Matteo Renzi, indeciso se prendersi il Pd e travolgere il governo, un po’ lamentoso, ma certamente battagliero. E in fine, in mezzo, tra i due così ingombranti vicini, galleggia la boa Enrico Letta, il presidente del Consiglio intenzionato a sopravvivere ad ogni urto, protetto dal Quirinale e adesso scortato pure da ben trentacinque saggi, camera di compensazione, ammortizzatore riformista di ogni botta, provenga questa dalla mina alla sua destra (il Cavaliere) o da quella alla sua sinistra (Renzi).
E dunque Berlusconi dice che «la guerra civile è finita, il governo è forte e durerà», eppure in privato si agita e straparla di scossoni e di rivolgimenti, fa sapere che «i miei falchi sono molto nervosi e vogliono staccare la spina», dice che «li trattengo a stento», e in realtà il Cavaliere anima la folcloristica vita interna del suo partito perché è alla febbrile ricerca di garanzie, di carezze quirinalizie, di rassicurazioni istituzionali intorno alle intenzioni della massima Corte, la Consulta che dovrà decidere, il 19 giugno, se garantirgli o meno il legittimo impedimento nel processo Mediaset che arriva alle battute finali in Cassazione.
Così Berlusconi, sospeso e indeciso, una bomba mezzo innescata e mezzo disinnescata, finisce con l’assomigliare sempre di più al più giovane Renzi, l’altro carismatico Amleto della politica italiana, il sindaco prodigo d’interviste – ieri a la Stampa, oggi al Corriere della Sera, domani chissà… – che ancora non sa se candidarsi alla segreteria del Pd o restare fermo dovè, non sa se fare le scarpe al governo o abbracciare Enrico Letta, aspetta, fa mezzo passo avanti e mezzo passo in dietro, non sa mordere o baciare, e intanto, nel dubbio, si esercita un po’ nel vittimismo, che tanto assomiglia a quello del suo gemello Cavaliere. «Mi prendono in giro per il giubbotto di pelle e non sanno che la pelletteria è un settore che tira», dice Renzi ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, e poi: «Mi hanno attaccato perché sono andato dalla De Filippi, ma dopo di me sono andati don Ciotti e Gino Strada e nessuno ha detto niente» e infine una stoccata a quel Letta al quale tuttavia via lui – giura – è legato da sentimenti di assoluta lealtà. «Mi hanno dipinto come un’olgettina perché sono andato ad Arcore, ma loro con Berlusconi ci hanno fatto un governo». Loro, quelli della grande coalizione.
Schiacciato tra i due, sempre sul punto di sfasciarsi senza però mai raggiungere davvero il punto di rottura, c’è lui, il presidente del Consiglio, il capo di un governo a scadenza, quell’esecutivo di scopo che appare oggi tanto fragile da sembrare in realtà eterno, destinato cioè a lunga, infinita, e pur tormentosa navigazione, secondo quell’immutabile regola dell’italianità individuata da Giuseppe Prezzolini, «In Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio». E difatti Letta adesso, compresso com’è tra Berlusconi e Renzi, in equilibrio precario com’è, dice che il governo «dura cinque anni» e che i diciotto mesi, di cui pure aveva parlato fino a ieri come orizzonte invalicabile, non sono altro che il tempo necessario alle riforme, perché al contrario «il mio governo finirà la legislatura».
Insomma, per la prima volta questo elastico e morbido leader di governo, lui che per natura sarebbe portato alla modestia del carattere e del tono, pur con la sua indole mimetica, si mostra invece spavaldo e coraggioso, proietta se stesso e la logica di grande coalizione oltre i confini dell’aurea mediocrità che pure si era imposto fin dall’inizio, si accorge d’avere una possibilità, proprio adesso che il momento s’è fatto invece pericoloso sul serio, adesso che Berlusconi ha l’occasione di scoppiare (il 19 giugno contro la corte costituzionale) e adesso che pure Renzi deve decidere se vuole essere mina vagante nei corridoi agitati del Pd, o se invece, cresciuto, intende candidarsi alla segreteria del partito confuso e di governo.