A partire dal 22 aprile 2014 sarà avviato lo spegnimento dell’altoforno della Lucchini di Piombino, in amministrazione controllata. Mentre è in arrivo un accordo di programma per gli investimenti sulle bonifiche e sugli impianti e continua il confronto sugli ammortizzatori sociali (più di un migliaio di lavoratori sono a rischio), è segnato il destino dell’altoforno. Delle tre offerte non vincolanti arrivate dalle indiane Jindal sw e Jindal spl e dall’ucraina Steel Mont (altre potrebbero giunte entro il 30 maggio), nessuna prevede di rilevare anche l’area a caldo. Per la procedura di spegnimento, ha spiegato Il Sole 24 Ore, si ricorrerà a una metodologia conservativa, caricando l’impianto con coke in modo da mantenerlo in temperatura e poterlo eventualmente riavvivare entro una ventina di giorni, danni al refrattario permettendo. L’accordo di programma prevede 50 milioni di euro per sostenere la bonifica ambientale, altri 20 per la bretella Piombino-porto, e la conferma della necessità di investimenti in un forno elettrico affiancato da un impianto con tecnologia Corex.
Va verso la chiusura uno dei tre impianti a caldo ancora presenti in Italia (gli altri sono all’Ilva di Taranto e alla Lucchini-Severstal di Trieste). Riproponiamo la nostra inchiesta sulla siderurgia in Italia.
Loro non si stancano di ripeterlo: il primo nocciolo di Unione europea, appena dopo la Seconda guerra mondiale, nacque con la Ceca, la comunità europea del carbone e dell’acciaio. Eppure i padroni delle acciaierie italiane sono stretti tra un eccesso di libero mercato, con India e Russia che impongono dazi sull’export, e una sovraccapacità produttiva ormai al 60 per cento. Non che sia la prima crisi che affrontano. Negli anni Settanta il ministro belga Ètienne Davignon mise in campo una strategia basata su due pilastri: riduzione graduale della produzione e aiuti di Stato. A distanza di quarant’anni e con il caso Ilva al centro delle polemiche, la prossima settimana il commissario all’Industria Antonio Tajani presenterà il nuovo piano europeo per la siderurgia. Se la minore produzione è necessaria alla luce del rallentamento della manifattura, sicuramente in tempi di crisi dei debiti sovrani la soluzione non potrà essere un altro salvagente preso direttamente dalle tasche dei cittadini.
Oltre alla sovraccapacità, le altre due incognite sono il costo dell’energia – la bolletta incide sul 40% dei costi di trasformazione – e i vincoli ambientali non rispettati nemmeno dai vicini come la Turchia, che ha raggiunto la Germania. Due aspetti che il ministro Zanonato ha affrontato la scorsa settimana aprendo un tavolo speciale al Ministero dello Sviluppo economico per risolvere, oltre all’Ilva, i problemi della Lucchini-Severstal a Piombino, gli Acciai speciali di Terni, la vendita da parte di Arcelor Mittal dello stabilimento di Magona, la Beltrame e la Berco e la ferriera di Servola, sulla quale, a quanto risulta, avrebbe messo gli occhi il cremonese Giovanni Arvedi.
Crisi aziendali che pesano lungo tutta la filiera. Ad esempio, sull’ampliamento della banchina del porto di Piombino da 2,5 a 6,5 km, con 300 milioni di euro di investimenti in project financing ora congelati. O ancora i 5mila addetti della “piccola Ruhr” del Canavese, dove si lavora un terzo dell’acciaio stampato in Italia. Anche la siderurgia, seppure esistano grandi gruppi, non si sottrae alla legge del capitalismo diffuso: in Lombardia ha sede il 40,6% delle imprese del comparto, 105 soltanto in provincia di Brescia. Soluzioni? «Dobbiamo imparare a collaborare tra noi» ha detto al Corriere di Brescia Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, in occasione dell’ultimo Made in Steel, la kermesse più importante del settore. Più che un suggerimento, un imperativo categorico.
Stando ai dati dell’associazione che riunisce 150 imprese rappresentative del 95% della produzione nazionale, nei primi tre mesi dell’anno – a fronte di un output in crescita del 2,3% a livello mondiale – l’Europa si è contratta del 5,3%, con l’Italia a meno 17% rispetto al primo trimestre 2012. Dal 2007 all’anno passato la produzione nazionale è crollata complessivamente del 15% a 27,2 milioni di tonnellate. Una frenata sulla quale ha inciso principalmente l’edilizia, che da sola vale il 40% del consumo totale dei prodotti “lunghi”. Per i “piani”, destinati invece all’automotive, lo stop è stato meno brusco, grazie all’export della componentistica di fascia alta in direzione Germania.
L’ultimo outlook di Siderweb, magazine di settore, relativo allo scorso febbraio, sottolinea inoltre che la discesa dei prezzi conseguente alla contrazione della domanda avrà una «ricaduta negativa sui margini industriali delle aziende produttrici. Una situazione destinata a persistere, quantomeno per l’intero primo semestre 2013». Fortunatamente nessuno ha nostalgia della siderurgia di Stato stile Iri, dove politica e capitalismo familiare hanno mangiato a sazietà.
L’impatto ambientale
Resta il problema delle emissioni industriali nella produzione soprattutto primaria, quella che parte dai minerali, trasformandoli in ghisa e poi in acciaio negli altiforni. Problema che non riguarda solo Taranto, ma anche gli altri due stabilimenti di produzione a caldo: Piombino (in provincia di Livorno) e Trieste della Lucchini-Severstal.
Per Taranto, il 26 ottobre del 2012 il ministero dell’Ambiente guidato da Corrado Clini ha rilasciato la nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia), precisando che lo stabilimento dovrà attenersi ai valori limite di emissione prescritti e che ogni tre mesi l’azienda dovrà inviare una relazione «contenente un aggiornamento dello stato di attuazione degli interventi strutturali e gestionali previsti». In particolare, al punto 8, viene affrontato il tema della riduzione delle emissioni non convogliate, che dipendono dagli spostamenti del coke.
Nelle perizie che hanno portato il gip del Tribunale di Taranto Patrizia Todisco al sequestro dell’area a caldo è scritto che «l’esposizione agli inquinanti emessi ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi che si traducono in malattia o morte». Come si legge nei documenti, nell’aria di Taranto si trovano concentrazioni di metalli pesanti 25 volte superiori al valore minimo. Altissima anche la presenza di polveri Pm10, per le quali secondo il rapporto “Mal’aria industriale” di Legambiente l’Ilva sarebbe al primo posto in Italia con 1.360 tonnellate emesse nell’aria in un anno. Primo gradino del podio anche per emissioni di monossido di carbonio (172mila tonnellate), ossidi di azoto (8.190 tonnellate), idrocarburi (338 chilogrammi), piombo (9.020 chilogrammi) e cadmio (138 chilogrammi).
Lo storico stabilimento di Piombino, nato nel 1864 e di proprietà dell’Ilva fino all’inizio degli anni Novanta, dallo scorso dicembre è guidato invece dal commissario Piero Nardi. Ad aprile il consiglio dei ministri lo ha riconosciuto come «area di crisi industriale complessa» nel decreto legge “emergenze”. Qualche giorno prima (il 18 aprile) il ministero ha rilasciato l’Aia per lo stabilimento toscano, stabilendo che entro marzo 2016 dovrà adeguarsi alle norme europee sulle Bat (best available techniques) applicando all’intero ciclo produttivo le migliori tecnologie disponibili per ridurre l’inquinamento. Nelle trasformazioni da effettuare indicate, sono elencati una nuova modalità di trattamento delle acque reflue, il miglioramento del trasporto su gomma del coke dalla cokeria all’altoforno (che causa dispersioni di polveri), la riduzione delle emissioni associate agli sfiati dell’alforno e le modifiche per ridurre le emissioni di particolato dal capannone dell’acciaieria.
Come si legge nelle relazioni dell’Arpat(Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana), dalle bocche fumanti dei capannoni toscani sono state emesse negli anni passati concentrazioni di benzoapirene superiori anche 15 volte al valore obiettivo di 1 nanogrammo ogni metro cubo, fino all’abbassamento dei livelli degli ultimi anni grazie alla chiusura della Batteria 27 forni (una delle più inquinanti) avvenuta nel maggio del 2006. «Analizzando gli ultimi 365 giorni, il valore medio giornaliero più alto è risultato essere 5,7 nanogrammi al metro cubo», si legge nell’ultima rilevazione. Non solo: in un rapporto del 2008 redatto da Peacelink, Livorno è risultata la seconda provincia più inquinata d’Italia dopo Taranto, raggiungendo nella classifica 101 punti, in buona parte frutto delle emissioni in acqua di arsenico (2930 chili all’anno) e piombo (5945 chili all’anno) degli stabilimenti Solvay e dalle migliaia di chili di cianuri scaricati dallo stabilimento di Piombino. Non a caso, lo stabilimento è indicato dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), tra i Siti di bonifica di interesse nazionale (Sin) che necessitano di interventi urgenti di bonifica.
Nell’elenco dei Sin compare anche Trieste, dove ha sede l’altoforno Lucchini. Per questo stabilimento, l’Aia è stata rilasciata dalla Regione Friuli Venezia Giulia nel 2008 (il documento ha valore di cinque anni, ma può durare anche di più). Secondo il sindaco Roberto Cosolini, però, la Lucchini non avrebbe fatto gli investimenti tecnici previsti dal documento. La proprietà ha sempre rispedito le accuse al mittente. Ma i rilevamenti sui livelli di benzoapirene effettuati dall’Arpa (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) tra gennaio e luglio 2012 sono risultati oltre i limiti di legge. E in un documento del 2012 del dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria triestina vengono fatti notare anche 64 sforamenti giornalieri di Pm10 e benzene in soli sette mesi. Non solo: nella classifica dei siti maggiormente inquinanti stilati da Legambiente, il polo di Trieste compare nella top ten delle emissioni di Pm10 (84 tonnellate in un anno), monossido di carbonio (5.730 tonnellate) e idrocarburi policiclici aromatici (79,5 chilogrammi).
Nello stesso dossier di Legambiente, compaiono altre acciaierie tra i siti maggiormente inquinanti: le acciaierie Valbruna di Bolzano, la Thyssenkrupp di Terni, le acciaierie Beltrame di Vicenza, la Cogne Acciai speciali di Aosta, la Alfa acciai e le acciaierie di Calvisano di Brindisi e l’acciaieria Valsugana di Trento.