Letta-Alfano, il gioco delle parti tra tasse e processi

La bussola politica

Solo i grandi amici riescono a litigare, e litigando a salvarsi la pelle a vicenda. Angelino Alfano ed Enrico Letta mantengono a galla il loro fragile governo tenendosi il muso, agitando una dialettica aspra sull’Imu e sull’aumento dell’Iva, le due tasse che esasperano gli animi dell’Italia politica, con il vicepremier del Pdl consegnato al ruolo del severo difensore di queste bandiere elettorali («l’Iva non deve aumentare», ha detto Alfano con piglio ultimativo), e l’altro, il presidente del Consiglio, che invece recita la parte a lui più congeniale del cauto tessitore («vedremo che si può fare», ha concesso Letta con affettata preoccupazione). E il loro è un duetto, canto e controcanto, una melodia studiata, un conflitto superficiale che occulta un’intesa profonda, una complicità che però s’indovina soltanto nei dettagli, negli sguardi durante le conferenze stampa, talvolta nei sorrisi a filo d’erba e nelle occhiate circospette che si scambiano, nella frequenza con la quale questi ragazzi democristiani si telefonano, si consultano, pranzano e cenano insieme.

Così, quando mercoledì prossimo, al termine del Consiglio dei ministri, Alfano avrà ottenuto il rinvio dell’Iva strappando all’apparenza un “sì” dalla viva carne ministeriale di Fabrizio Saccomanni, che è l’uomo del Tesoro e dunque dei conti dell’Italia in rosso, ebbene la vittoria non sarà più dei falchi del Pdl, degli uomini che hanno minacciato la tenuta dell’esecutivo; non saranno i tosti avversari delle larghe intese a gridare vittoria, ma sarà Alfano a dire “ce l’ho fatta”, e in definitiva sarà il governo stesso ad avere vinto, ad aver evitato che altri potessero fregiarsi d’una pericolosa medaglia.

Dunque ancora domani i gemelli delle larghe intese, Letta e Alfano, si beccheranno nel corso di un vertice di maggioranza, uno spettacolo di lotta a beneficio dei capigruppo dei rispettivi partiti che già li osservano con sospetto perché ne indovinano il gioco complice. Entrambi tengono fede a una sceneggiatura concordata che deve vederli teneramente confliggere, perché Alfano e Letta sanno che solo dividendosi potranno restare uniti e tenere botta contro le spinte muscolari che arrivano prepotenti tanto da sinistra, dove sempre gravitano minacciosi i soliti Matteo Renzi e Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, quanto dalla destra inquieta di un Berlusconi ancora in versione statista moderato, ma pure troppo vicino alla resa dei conti giudiziaria per non coltivare incubi e orizzonti esplosivi. E così, dopo la battaglia di ieri e quella di domani, mercoledì, quando si riunirà il governo a Palazzo Chigi, finalmente tutto sarà risolto, all’improvviso dopo tanto strepitare l’Iva non aumenterà, magicamente, almeno fino ad ottobre come ha chiesto Alfano, e come Letta e Saccomanni in realtà hanno già concesso da tempo al grande alleato che aveva però bisogno di un po’ di rumore, di qualche titolo di giornale, di un po’ di carezze scambiate per schiaffi.

Il giovane Alfano ha bisogno di uno scontro recitato, di un trucco di scena, di un po’ di pomodoro spacciato per sangue, quanto basta a presentarsi vincente già dopodomani alla corte di Silvio Berlusconi, in quel Castello di Arcore abitato da troppi cortigiani desiderosi di menare le mani, le Santanché e i Verdini, e i Capezzone, i suoi avversari più temibili, gli uomini che danno voce ai retropensieri più bellicosi del Cavaliere inquieto e inquisito, lui che oggi ascolterà con una trepidazione carica d’incognite la sentenza del tribunale di Milano sul processo Ruby.

Dunque se oggi Berlusconi finisse ancora condannato a Milano, per il reato di prostituzione minorile che gli contesta Ilda Boccassini, non è difficile immaginare quale stridore di falchi si leverebbe subito nell’aria rarefatta della politica italiana. E sarà tutto un “via l’Imu e rinviate l’iva e schiaffeggiate la Merkel”. Come sempre però, il Cavaliere che li autorizza e li guida nel buio di casa sua, alla luce del sole spenderà, com’è accaduto anche per la sentenza a lui avversa della Corte costituzionale, parole quasi di miele, lenitive eppure allusive per le orecchie tese di Giorgio Napolitano e per quelle previdenti di Letta. Ed è anche questa una strategia, una fluida sceneggiatura che contribuisce al senso di precarietà con il quale il governo di grande coalizione affronta ogni giorno che dio manda in terra, con il Cavaliere vestito da moderato che di buon grado finge d’essere in balia d’uno stormo esagitato “che fatico a tenere a bada”, ma che in realtà tutto conosce e tutto governa nella sua corte variopinta.

Così Letta e Alfano, la strana coppia, si muovono di conseguenza e d’intesa, l’uno coltivando un rapporto di fedeltà indiscusso con il Cavaliere, e l’altro trascinandosi dietro un garbo e un’indole mediorientale che lo rendono perfetto per il caos inerte d’una legislatura nata sotto il segno della crisi. E se dunque Berlusconi oggi fosse davvero condannato a Milano, allora sarà Alfano a strepitare più di chiunque altro, e sarà lui, Angelino, alla fine, a fregiarsi delle vittorie sull’Imu e sull’Iva, le due vendette del centrodestra sulla sinistra austera, le bandiere elettorali del berlusconismo. E una volta conquistata la vittoria, strappata dalle unghie dei suoi nemici dentro il Pdl, allora il giovane Alfano per un attimo potrà anche smettere di recitare, tornare sé stesso, voltarsi appena, con rapida circospezione, un lampo muto, quanto basta a occultare agli occhi di chi non deve vedere un segno complice, d’intesa, un “grazie” dipinto sul viso e rivolto al socio Enrico Letta. 

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