Il governo ha appena concluso la prima fase, istruttoria, del suo ambizioso cammino. E’ stata rifinanziata la cassa integrazione in deroga, è stata avviata la cancellazione del finanziamento pubblico ai partiti ed è stata approvata una mozione parlamentare che detta l’agenda delle riforme istituzionali. Non è molto, ma è qualcosa. La macchina della grande coalizione si è di fatto messa in moto, con cautela, pur tra le mille sofferenze che agitano la difficile convivenza di Pd e Pdl.
Secondo i piani di Letta e Giorgio Napolitano, il mese che si è appena aperto dovrà essere quello degli interventi economici: sabato, a Trento, il presidente del Consiglio ha annunciato che intende esonerare dagli oneri fiscali le aziende che assumeranno giovani dipendenti. Ma l’enunciazione delle riforme, come quella dell’elezione diretta del presidente della Repubblica, non precipitano su un morbido tappeto di condivisione né su un clima rilassato nei partiti: il Pd è profondamente diviso e in stato confusionale anche per l’avanzata ambigua e contundente di Matteo Renzi, la riforma elettorale si è attorcigliata al punto da preoccupare il Quirinale («Basta inconcludenze e rigidità») e l’abitudine alla rissa fa gravare su Silvio Berlusconi i soliti sospetti e retropensieri sulla sua inaffidabilità e le sue reali intenzioni nei confronti del governo. Così passa persino inosservato che Angelino Alfano, vicepremier e braccio destro del Cavaliere, dopo aver incontrato Berlusconi in Sardegna, abbia detto che «il governo sta da una parte e i processi di Berlusconi da un’altra, due ambiti e due destini separati e assolutamente distinti».
Domani il Pd riunisce la sua direzione nazionale e lì, di fronte al segretario provvisorio Guglielmo Epifani, sarà evidente la tendenza alla destabilizzazione del governo provocata dalle lotte interne al partito. Si deve fissare la data del congresso per l’elezione del prossimo leader. L’asse più vicina a Letta e più fedele alle larghe intese non ha fretta di mettere a rischio la grande coalizione convocando il congresso, ma il resto del partito, compresi i giovani turchi alla Matteo Orfini e i cattolici di Beppe Fioroni, incalzano. Su tutto pesa l’incertezza del giovane Renzi: vuole candidarsi o no? Il sindaco, che dice di non essere interessato «al gioco delle trappolone politiche romane», tuttavia anima, sempre di più, una linea d’opposizione interna poco attenta alla tenuta del governo e forse timorosa che Letta possa avere successo oscurando l’immagine e la retorica della rottamazione. E insomma Renzi rimane sospeso, resta a guardare, aspetta di capire quali saranno le regole per l’elezione del prossimo segretario (certamente non più le primarie), e intanto continua la sua campagna per linee interne, giocata su un pericoloso amletismo: mi candido o non mi candido? Sto con Letta o sono contro Letta? Nell’incertezza, intanto, prendono forma posizioni genericamente contrarie alla convivenza promiscua con Berlusconi che si riflettono minacciose sul cammino delle riforme disegnato da Letta e da Napolitano.
Sabato Letta ha aperto, pur con timidezza, all’ipotesi dell’elezione diretta del presidente della Repubblica e ieri, sul Corriere della Sera, è stato pubblicato un appello a favore del presidenzialismo firmato da Augusto Barbera, Angelo Panebianco, Arturo Parisi e Mario Segni. Il Pdl è d’accordo. Nel Pd convivono invece molte e divergenti opinioni, la stessa varietà di posizioni che la settimana scorsa erano precipitate pericolosamente sul voto intorno alla mozione unica per le riforme, con un centinaio di parlamentari del partito che convergevano sulla proposta del renziano Roberto Giachetti per la reintroduzione del Mattarellum e contro le indicazioni del governo. Insomma i problemi congressuali del Pd contribuiscono all’immagine caduca della grande coalizione all’italiana. E anche la riforma della legge elettorale, che Napolitano vorrebbe per il momento minima, in attesa delle “inderogabili” riforme che dovrebbero ridisegnare l’assetto istituzionale, appare un obiettivo complicatissimo da raggiungere per via degli opportunismi che caraterizzano la vita interna dei partiti.
Napolitano è un presidente anziano ma vigile, e la sua pazienza istituzionale potrebbe avere un limite, come ha fatto intuire nel suo intervento di ieri in occasione della festa della Repubblica. Esiste la possibilità che il Quirinale minacci una riforma elettorale fatta per decreto, come era già accaduto quando Palazzo Chigi sedeva Mario Monti, un intervento d’imperio, anche solo teorizzato per far paura ai partiti, con il governo impegnato ad ascoltare i vertici di Pd e Pdl per la riscrittura e la modifica minima dell’attuale sistema di voto su cui pende una pronuncia della corte Costituzionale. Ma per il momento l’inclinazione prevalente del Quirinale è quella di proteggere la grande coalizione e la sua fragile maggioranza. Per questo il presidente della Repubblica tenderà a sgombrare il campo da tutti gli elementi di destabilizzazione, compresa la nuova legge elettorale. Per tutto giugno il governo sarà impegnato nell’affrontare le questioni del lavoro e della recessione, consapevole che la sua capacità di resistere ai marosi della contesa partitica dipende dall’andamento dell’economia e dall’iniziativa politica e riformista che le larghe intese sapranno avviare. Letta ha già annunciato sgravi fiscali per le imprese che assumeranno giovani, un decreto che arriverà prima dell’eurovertice del 26 giugno, e il vicepremier Alfano ha dichiarato che «giugno sarà il mese degli interventi economici». Sospeso tra ambizione e galleggiamento consociativo, finora il governo è stato impegnato in un lavoro istruttorio, poco più che preparativo, e dunque questo mese, giugno, così carico di attese, si prefigura come il momento della verità. Solo governando si resiste.