“Mandami tanta vita”, lo stile color seppia di Di Paolo

Leggiamo la cinquina del Premio Strega

✦CR  Christian Raimo   ✧FL Francesco Longo

✦CR Francesco, dicevamo. Questa volta il libro di Paolo Di Paolo ci ho messo poco a leggerlo. Sarà perché il libro è breve, sarà perché l’autore pare cercare di accompagnarti passo passo, di avvolgerti. E se ti davano fastidio preventivamente i camioncini Iveco nella prima pagina di Siti, qui siamo al polo opposto. Anni Venti fra Torino e Parigi. Ci sono due protagonisti, due ventenni che si sfiorano, uno si chiama Moraldo e l’altro Piero. Piero Gobetti. I due si quasi-conoscono a Torino e poi si quasi-reincontreranno a Parigi, dove sono arrivati entrambi, Moraldo per inseguire una donna, Piero per scappare alle leggi fascistissime. Di Paolo segue le loro vicende in parallelo, tracciando soprattutto il filo di due giovani idealisti, emblematici di ogni gioventù, in qualsiasi secolo e luogo.

Posso dire che però – e dichiarando subito il riconoscimento di una qualità letteraria a Paolo Di Paolo – il libro non è riuscito in quella che mi sembrava l’ambizione dichiarata fin dall’inizio: emozionarmi, commuovermi, ridarmi la possibilità di sentire una comunione di qualche tipo con un personaggio come Piero Gobetti, che come possiamo non ammirare. Insomma, per quasi tutto il libro sono stato un lettore spezzato: da una parte riconoscevo lo sforzo che Di Paolo aveva fatto per documentarsi e cercare di rendere in modo efficace quell’atmosfera, quella tensione, quei caratteri, dall’altra trovavo questo sforzo invadente. Entrare nella testa di un ventiquattrenne degli anni Venti non è facile, ma ho avuto come l’impressione che la scrittura di Paolo Di Paolo funzioni quando si autotradisce, ossia quando invece di ricalcare in modo libresco, pseudotabucchiano l’immagine che ci possiamo fare di un ragazzo di cento anni fa – desideri e complessi, compresi – si lascia andare e fa venire fuori dei caratteri fuori dal tempo.

Ti faccio un paio di esempi:

pag. 41 ❝ Andare a scegliersi la giacca, un paio di camicie, racimolare un guardaroba sufficiente per la sessione d’esami, gli sembra quasi un’impresa eroica. Si sente goffo: girare per acquisti, sostare davanti alle vetrine – appena gli arriva il riflesso del suo viso, se ne ritrae. Dove si comprano l’eleganza e la disinvoltura? Mettendo piede in una sartoria, per qualche speciale occasione, tenendo stese le braccia come un crocifisso mentre il sarto prendeva le misure, Moraldo aveva sperimentato la vanità. ❞

Ecco, quello che provo a condividere è questo senso di artefazione, quasi come se questa scena fosse anniventizzata – quasi un filtro di Instagram: virata seppia. Questi due, Piero e Moraldo, si muovono e pensano come due giovani che cercano di essere adulti, un po’ timidi, adulti borghesi: la fedeltà a un’immagine della storia, anche alle autorappresentazioni che Di Paolo ha consultato, gli epistolari di Piero con Ada, non c’è il rischio che rimandino a un’immagine agiografica, in cui le ombre di un personaggio letterario come Piero o come Moraldo sono al massimo un eccesso di timidezza o una piccola vanità?

Non si rischia di leggere questo romanzo con una sorta di ricatto del contenuto. Forse lo dico da un punto di vista parziale. Di chi ha amato e ama Gobetti, la sua maturità incredibile, il suo antifascismo antiretorico e culturale. Ma pensavo che se dovessi scrivere un romanzo su di lui tradirei completamente la materia. Mi spingerei quasi verso un’ucronia, una visione postmoderna per non rimanere imprigionato da una dimensione di letteratura comunque edificante. Quando ad esempio, ecco il secondo esempio, Di Paolo sembra dimenticarsi della fedeltà al suo personaggio e alla sua epoca, il romanzo sembra per me finalmente emancipato. Non si sentono più gli echi del lavoro di documentazione storica etc.

Prendi pag. 116 o altri momenti in cui partono quelle specie di streams of consciousness che ragionano sul piccolo presente dei personaggi e sul grande presente della Storia, senza più la preoccupazione, a me sembra, dell’eleganza stilistica. Ecco lì cominciavo a dimenticarmi che era tutta una finzione.

✧FL Mi è girata in testa la parola “seppia” durante tutta la lettura. Il fatto che tu l’abbia appena usata mi fa pensare che qualche effetto si sia davvero attivato durante la scrittura di Paolo Di Paolo. Rispetto al camioncino Iveco di Siti è vero che qui si corre il rischio opposto, chiudersi in quello che tu chiami una “dimensione di letteratura”. Cioè un qualcosa di intrinsecamente letterario, un’atmosfera polverosa che attraversa tutto il libro, e che ti costringe però a usare termini come “qualità letteraria”, “libresco” “personaggio letterario”, che per la recensione di Siti non ti sono neanche venuti in mente.

Ammetto, a volte, Mandami tanta vita mi è parso eccessivamente zuccheroso, un po’ troppo delicato (per lo stile curatissimo e per le scene sobrie) e a volte di un romanticismo ai limiti del retorico. Premetto tutto ciò però per dire: ben venga. Non posso infatti non vedere l’intenzione di Paolo Di Paolo di far della letteratura, seppure giocando un po’ troppo in difesa. Ma almeno sa che nei romanzi devono esserci delle perturbazioni in arrivo, delle storie, delle attese, sa che le ragazze devono avere le trecce e che queste trecce a un certo punto si devono scogliere. Si ricorda che i personaggi tossiscono, diventano tristi, sono tormentati dal desiderio. Detto questo non lo giustifico quando scrive «il cuore gli batteva all’impazzata». Credo che potrebbe lasciarsi andare di più nella scrittura, buttarsi senza reti, tagliare le briglie che gli impediscono qualsiasi eccesso, che tengono a freno un talento che così non può mai manifestarsi.

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Dici che avresti raccontato questa storia con una “visione postmoderna”. Ti ricordo, però, che questo “effetto antico” che abbiamo registrato leggendo, della scena che definisci “anniventizzata”, è precisamente quello che nel testo sacro del Postmoderno, Fredric Jameson chiamava «cinquantezza degli anni Cinquanta». Cioè proprio quest’idea postmoderna che per far rivivere le epoche basta evocarle con qualche simulacro. Forse qui siamo più vicini al postmoderno di quanto non crediamo. E Tabucchi che citi tu, e che compare nella nota alla fine del libro, forse è una spia da tenere d’occhio.

✦CR Tabucchi è un autore che ha fatto poca scuola nel panorama italiano. Ora ci sono due autori che esplicitano questa filiazione, Di Paolo, appunto, e Andrea Bajani. Ma il rischio di quest’autore e secondo me anche la poca fortuna che ne ha fatto un autore oggi meno amato di vent’anni fa (il fondo Tabucchi pare che finisca in Francia per mancanza di investitori istituzionali italiani) è la mitizzazione della letteratura. Ma se penso a Sogni di sogni, per dire un libro tipicamente tabucchiano, abbiamo un libro che inventa i sogni di personaggi tipo Leopardi o Toulouse-Lautrec. Ma l’operazione di omaggio alla letteratura e all’arte è talmente espressa da poter mantenere un livello di ironia che qui è precluso a Di Paolo. Autoprecluso. Perché?

Però pensavo anche che forse questo libro potrebbe – per un ragazzo che non ha mai sentito parlare di Gobetti – farlo incuriosire, farlo immedesimare nella storia di un ragazzo che crede nelle sue idee, che trova nello studio una passione bruciante. E allo stesso modo guardare a Moraldo, questo altro ragazzo timido, che ammira la vitalità sfrontata di Gobetti e non riesce a essere disinvolto con questa ragazza che ama, Carlotta. Forse ho uno sguardo troppo distaccato e non riesco a capire questo tipo di fascinazione, questa funzione della letteratura? Questa domanda la farei a Di Paolo, proprio per capire le sue intenzioni, al di là dell’esito. Ho notato che molte recensioni gli riconoscono questa capacità, fatica, questa leggerezza, questa ingenuità, e forse quello che per me non è un valore, invece potrebbe esserlo: potrebbe questo romanzo avere una funzione come dire evocativa, educativa, anche soltanto per creare un ponte verso altre letture, per introdurci a dei mondi che non conosciamo così bene.

✧FL Ecco questo è un punto cruciale e ha a che fare con il mio scetticismo verso l’ultimo libro di Siti. Credo che Paolo Di Paolo sia sulla strada buona e abbia il passo del romanziere. Ha una idea precisa di cosa sia la letteratura e andando avanti questa intuizione lo porterà sicuramente da qualche parte così come sarà utile per orientare i suoi lettori. Chi invece non crede alla forma romanzo o lascia che la letteratura sia completamente invasa da altri linguaggi ha imboccato una strada sterile. Il punto però è che per il futuro mi aspetto che Di Paolo alzi l’asta dell’ambizione e la posta in gioco. Preso atto che la letteratura ha bisogno di presenze come quella del destino (qui è uno scambio di bagagli il motore di gran parte della narrazione) deve portare alle estreme conseguenze questa intuizione e in più rinnovarla. Così come Carlotta è una ragazza enigmatica (come in questi mesi lo erano Mabel di Luca Ricci e Sofia di Paolo Cognetti) ma sono certo che la timidezza e la reticenza che sa usare sono due elementi molto suoi e lo porteranno magari a dar vita ad altre figure maschili e femminili importanti. 

LXVII Premio Strega – La Cinquina dei finalisti

Serata Finale: 4 luglio 2013 (Roma, Villa Giulia)

Le colpe dei padri (Piemme) di Alessandro Perissinotto con voti 69
Resistere non serve a niente (Rizzoli) di Walter Siti con voti 66
Figli dello stesso padre (Longanesi) di Romana Petri con voti 49
Mandami tanta vita (Feltrinelli) di Paolo Di Paolo con voti 45
Nessuno sa di noi (Giunti) di Simona Sparaco con voti 36 

© Premio Strega. La cinquina dei finalisti. Paolo Di Paolo è il secondo da destra

Twitter: @christianraimo@FrancescoLongo@feltrinellied

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