Io (ossia una persona nata nel 1975, che da bambino vedeva sei ore di televisione al giorno, compresa la dose quotidiana di Happy Days e I Jefferson, che a quattordici anni vinse i provini per andare a Doppio slalom anche se alla fine suo padre non ce lo mandò…) mi sono letto l’ultimo libro del mio coetaneo (sei mesi di differenza) e “nativo della televisione commerciale” Matteo Renzi.
Si intitola Oltre la rottamazione, è lungo 120 pagine circa, l’ha pubblicato Mondadori, costa 15 euro, ed è una specie di diario argomentato dell’esperienza politica dalle primarie fino al governo attuale. Non mi ero mai letto per intero un suo libro e avevo dato per buono il pregiudizio che si porta con sé: che indipendentemente da cosa si pensi delle sue idee politiche, Renzi sia un grande comunicatore. Mentre alla fine, quello che ho concluso, in modo sintetico, è che alcune sue idee – soprattutto quelle più generiche – non siano male, ma che come comunicatore abbia pregi e difetti.
Ma vediamolo in modo articolato:
Partiamo dal pregio fondamentale del libro, che è l’autocritica. A volte sembra un espediente retorico di captatio benevolentiae nei confronti del lettore, ma anche se fosse è apprezzabile comunque: Renzi ammette i suoi errori, politici (per es. di avere accettato di correre per le primarie con delle regole che lo danneggiavano), di comunicazione (per es. di non aver saputo gestire in modo più trasparente la questione dei finanziamenti).
Lo stile di Renzi è molto reader-friendly, al limite di un’espressività iperinformale, una sorta di colloquialismo. Formule ricorrenti tipo “insomma”, “pare”, “sia chiaro” (pag. 4: “È un manuale dei perdenti, sia chiaro”; “Niente di personale contro i giuslavoristi e i sindacalisti, sia chiaro”, pag. 56) che sono ovviamente un modo retorico per affermare una cosa fingendo di smorzarne la convinzione: non ho nulla contro, però. Oppure tipo il “già” messo a inizio frase (per es: “Già, il Colle. Il Parlamento neoeletto conferma l’inquilino uscente Giorgio Napolitano”, pag. 4; “Già, il calcio. C’è qualcosa di più unificante e divisivo nel nostro Paese”, pag. 13; “Non ci rimane che scegliere cosa fare da grandi. Come Paese, intendo. Già. Perché diciamocela tutta…”) che sta a sottintendere che le proprie idee sono talmente perspicue da essere ovvie. La più icastica può essere quella a pag. 24 per es: “Sono sempre il solito, tranquillo. Sempre il solito bischero”.
Molte volte Renzi usa una retorica che calca sulla forza dell’ovvietà, con una consapevolezza molto precisa. (pag. 11: “Mi accusano di essere un qualunquista”). In alcuni casi proprio utilizza la formula “Sarò banale, ma”. Per es. a pag. 78, a proposito della Tav (su cui sorprendentemente dà un giudizio negativo): “Lo so che esprimere un concetto del genere è banale”; a proposito dell’obbligare la grande distribuzione al sostegno delle fasce più povere: “Esprimo un concetto banale”, pag. 98; pag. 10: “Può sembrare banale, ma proprio il telefonino è il simbolo di un cambiamento ontologico della vita quotidiana”. A proposito del carcere: “Forse sono un inguaribile ottimista, ma penso che in Italia è ora di finirla con una guerra civile permanente e iniziare a affermare alcune piccole ovvietà” (pag. 17). “Io mi limito a cedere alla logica e alla ragionevolezza” (pag. 18)…
In questa sorta di autoindulgenza nel poter essere banale Renzi crea una forma di cornice del discorso amichevole, una specie di upgrading intelligente rispetto al discorso veltroniano (suo riferimento politico-linguistico indiscusso): dove Veltroni legittimava il contesto in cui parlava qualunque fosse in maniera preventiva (“Intanto sono contento di essere qui e mi sembra importante esserci”) e non stigmatizzava mai l’avversario in modo polemico ma preferiva non nominarlo (si legga: Lakoff applicato a Veltroni, di Giovanna Cosenza), Renzi dice sostanzialmente: le cose banalmente stanno così, mica vorrete opporvi a questa ovvietà? Certo per far questo alle volte dice cose talmente ovvie da risultare un po’ una scoperta dell’acqua calda: a pag. 9 “Mi sono reso conto che il mondo che stiamo vivendo è straordinariamente difficile e complesso”; “viviamo in una campagna elettorale permanente dove gli insulti sono all’ordine del giorno” (pag. 37); “i sindaci affrontano problemi concreti, quotidiani, ma ci mettono l’entusiasmo, la passione, la grinta”. (pag. 49)
Ma cosa accade a chi ritiene che la sua prospettiva non sia così scontatamente condivisibile? Una posizione dissimile o contraria a questa ragionevolezza, a quello che ci appare banale o praticamente ovvio per Renzi, nel libro viene connotata dallo stigma dell’“ideologia”: “Arriverà pure nel nostro Paese prima o poi, un giorno in cui si potrà parlare con serenità, e non animati da furore ideologico e distruttivo…” (pag. 65); “L’articolo 18 è la coperta di Linus di una sinistra ideologica e di una destra rancorosa” (pag. 79)… L’ideologia o il moralismo sono passioni basse e inutili secondo Renzi, che in questo senso porta a compimento il disegno veltroniano di demarxistizzare la cultura di sinistra (dove “Marx” sta per “conflitto di classe”). L’ermeneutica di Renzi non prevede mai una lettura del mondo diviso tra oppressi e oppressori. Anche il suo cattolicesimo – il suo cattolicesimo politico – non è mai filorosso: non si intravede lo spirito di emancipazione di una teologia della liberazione o quella libertaria di un Alex Langer (giusto per citare l’unico riferimento della politica italiana degli ultimi trent’anni che la sinistra ha colpevolmente dimenticato e che ti aspetteresti di trovare in uno che ha cominciato a fare politica nell’associazionismo degli anni ’90), quanto piuttosto la lezione politica del welfare nordeuropeo: quell’Olof Palme, nume tutelare anche di Veltroni. Anche le battute, l’ironia, il sarcasmo, servono a questo tipo di discorso.
Oltre la rottamazione è un libro pieno di facezie, frecciatine, paradossi, freddure, tutte più o meno improntate alla polarità assurdità/buonsenso.
Pag. 3: “Qualche certezza resta intatta. Fortunatamente o sfortunatamente, sia chiaro. Per esempio la certezza che la sinistra italiana riesca a perdere le elezioni anche quando sarebbe impossibile farlo”.
Pag. 5: “Monti ha restituito serietà e credibilità al Paese (non era impresa complicata dopo che avevamo avuto per ministri persone come Bossi, Brambilla, Brunetta, solo per restare a quelli con la lettera B).
Pag. 7: “Credo che il presidente della Repubblica italiana sia uno dei più anziani capi di Stato in carica. E credo che il leader della Corea del Nord sia uno dei più giovani capi di Stato in carica. Il primo ha ottantotto anni, il secondo ne ha trentadue. Esiste qualche persona dotata di buonsenso che oggi pensi di scegliere Kim Jong-un, il leader della Corea del Nord che ha minacciato la Corea del Sud e gli Stati Uniti d’America di un attacco nucleare? Ovviamente no. Scegliamo tutti – convintamente – Napolitano, tutta la vita. Nessuno accetterebbe uno scambio neanche sotto tortura”.
Pag. 13: “Negli ultimi mesi della sua esperienza politica, Gianfranco Fini usava parole totalmente altre verso gli immigrati, come se la legge [Bossi-Fini] portasse il nome di un suo lontano parente. Come se quel Fini lì fosse quello dei tortellini”.
Pag. 14: “La coppia d’attacco della Nazionale è composta da Balotelli ed El Shaarawy , senza che nessuno si scandalizzi. L’idea di diventare come Balotelli o come El Shaarawy non preoccupa i genitori. Al massimo può preoccupare i parrucchieri, costretti a inseguire le più improbabili acconciature alla moda”.
Pag. 21: “Alcuni dei temi che Grillo ha lanciato in campagna elettorale sono molto interessanti. […] Potrei chiedergli i diritti d’autore non soltanto per la scelta di usare il camper, insomma. E poi il suo guru, Gianroberto Casaleggio, ha quel suo-non-so-che alla Patti Smith che per chi come noi sogna che ’people have the power’ è comunque intrigante”.
Pag. 31-32: “C’è un problema di vocali, insomma: volevo prendere il voto dei delusi di Berlusconi, arrivo a prendere il veto”.
Pag. 35: “Adesso sono diventato una risorsa. Non c’è dirigente del partito che nelle dichiarazioni pubbliche non associ il mio nome all’espressione risorsa. Ma anche basta adesso! Io non voglio essere una risorsa, fidatevi: preferisco vivere”.
Pag. 40: “È uno strano Paese, questo. Quando dovrebbe fare qualcosa – e tutti sembrano d’accordo – non fa quella cosa: istituisce una commissione per parlarne. E quando invece si è d’accordo, che succede? Si fa un tavolo. […] E noi, inguaribili romantici, convinti che i tavoli li facessero i falegnami”.
Pag. 45: “Ho letto che il responsabile organizzativo del partito, l’onorevole Nico Stumpo, ha dichiarato che Margherita Hack poteva votare solo se avesse portato la giustificazione. Cioè Nico Stumpo che chiede la giustificazione a Margherita Hack? Ci manca solo Nonna Papera astronauta e poi abbiamo finito il campionario degli orrori. E degli errori”.
Pag. 64: “Certo, poi occorre un cambio di mentalità. Negli Stati Uniti due ragazzi che si chiudono in un garage inventano una newco che, se funziona, viene immediatamente finanziata da aziende del venture capital. Da noi se due ragazzi si chiudono in un garage, arriva l’Asl di turno e lo chiude”.
Pag. 68: “L’unica novità di certi convegni politici, monotoni e stancanti, può arrivare solo dal menu del catering…”
Pag. 90: “Ho un figlio alle medie e due alle elementari. […] La femmina sta con suo papà: ‘Se c’è un Renzi, io voterei per lui’. Se mi trova il Telefono Azzurro sono finito!”
Ora, appunto, a cosa è utile questa ironia quietamente paradossale se non a creare una retorica del buonsenso? Di questa retorica, ancora, fa parte per esempio l’appello al cuore (pag. 70: “Una grande ricchezza di opere nei musei che, male organizzata, non scalda il cuore”; pag. 74: “Gli Uffizi, il cuore della bellezza di Firenze”) che cerca di minimizzare gli aspetti critici e gli attriti. È molto indicativo per esempio il passaggio dedicato ai beni culturali. Dove la cornice di buon senso neutralizza praticamente del tutto quelle che sono divisioni significative da un punto di vista politico (tra chi per esempio è per un protagonismo dei privati e chi invece si batte per una maggiore presenza del pubblico), Renzi usa una serie di termini apparentemente asettici: per esempio quando dice “I luoghi della nostra cultura sarebbero eterni se li sapessimo valorizzare”. Questa accezione di “valorizzazione” Salvatore Settis e Tomaso Montanari hanno speso molti articoli per destrutturarla, ma Renzi glissa su questa problematica, e finge che “valorizzazione” non contenga in sé l’ambigua – forse legittima per qualcuno – pretesa di “monetizzare”, e non di educare i cittadini, come previsto dall’articolo 9 della Costituzione.
In questo modo arriva a concludere senza prodursi in giustificazioni o senza sembrare di parte che “dobbiamo accettare convintamente l’intervento dei privati nel settore culturale”. Attraverso domande che sembrano pleonastiche ma non lo sono – “possiamo consentire che solo il pubblico sia il player della cultura?” – si ripensa in modo significativo il rapporto pubblico-privato, liquidando la visione di un Settis appunto come moralismo. “La formazione di un pubblico consapevole a cui possa dare risposta un’imprenditoria privata che sia vista senza troppi moralismi come avviene in tutto il mondo”.
Lo stesso dispositivo retorico viene applicato a un altro concetto: quello di merito. Con una sinuosità difficile da scalfire, a pag. 89 Renzi parla di scuola, lo fa in modo programmatico (l’avverbio ovviamente l’abbiamo imparato a riconoscere, no?): “Oltre la rottamazione significa, ovviamente, tornare a credere nella scuola”. Se difficilmente si può essere in disaccordo con la disamina: la figura dell’insegnante ha perso di autorevolezza, importanza sociale, dignità, prestigio, e non viene sostenuta adeguatamente dai genitori che non si spendono per un’alleanza educativa, Renzi asserisce con convinzione che “per cambiare davvero, occorre scommettere sul merito. Anche per i professori”, oppure “Vinceremo la sfida culturale del cambiamento nella scuola quando il professore medio capirà che scommettere sulle valutazioni non è il modo per punire, ma per premiare”. La scuola italiana, verrebbe da replicare, sono ormai almeno una decina d’anni che l’unico investimento che fa è sulla valutazione: dall’Invalsi all’istituzione dell’Anvur a tutte le infinite procedure di valutazione regolamentate dalla Riforma Gelmini. Anche la moglie di Renzi, racconta lui stesso nel libro, si sta sottoponendo al concorsone dopo anni di precarietà? Perché, verrebbe da insistere pensando di fare una battaglia condivisa con i tanti precari della scuola, invece di investire su merito e valutazione non si investe sulla formazione degli insegnanti? Perché non si obbligano a corsi di formazione invece di investire sulla selezione?
Bisogna riconoscere a Renzi comunque un sano sforzo, che è quello di mantenere per 100 pagine il filo del suo progetto intrecciato al valore della responsabilità: questo Oltre la rottamazione in fondo potrebbe essere letto semplicemente come un tentativo di scavallare la questione del conflitto generazionale e porsi come padri tout-court. Per cui risulta molto efficace quando per esempio concede gli onori all’ex avversario Pierluigi Bersani, come specie di Enea che porta sulla spalle Anchise (“Mi ricordo di un personaggio che è rimasto nella simpatia di parecchi appassionati di sport: Dorando Pietri, il maratoneta italiano autore di una straordinaria prova alle Olimpiadi di Londra del 1908, che si bloccò qualche metro prima della linea d’arrivo. Alcuni passanti decidono di risollevarlo e lo aiutano a tagliare il traguardo. Ma anche se arriva primo, non ha vinto. Viene squalificato e diventa il simbolo di chi non ce la fa per un soffio. Bersani è per molti aspetti il Dorando Pietri della politica italiana. Quelle persone che sembravano aiutarlo per percorrere l’ultimo miglio l’hanno fatto squalificare. E la medaglia d’oro è andata a un altro. […] Ecco perché mi sento vicino a lui sul piano umano e sinceramente mi dispiace quando vedo persone che gli devono tutto essere i primi a abbandonarlo”), mentre perde credibilità quando decide che per parlare ai giovani deve assimilarsi ai giovani: quando esalta Mark Elliott Zuckerberg (pag. 83) come nome-simbolo di una generazione che non è vero che è senza futuro, quando spinge sulla retorica dell’istante, del fare in fretta, dell’adesso, quando si mette il giacchetto da Fonzie per andare da Amici di Maria De Filippi, quando si fa fotografare sulla quarta di copertina di Oltre la rottamazione con in mano dei fogli, una penna ma anche un iPhone da cui sembra distratto.
Un altro limite che questa tensione alla responsabilità, all’autolegittimazione gli porta è quello di aver ridimensionato la capacità critica della sua vis fiorentina. Mentre si ascolta Renzi, mentre lo si legge, è come se si ascoltasse una sorta di non necessaria autocensura rispetto allo spirito iconoclasta di quella toscanità che lui rivendica: come se in questo senso il modello fosse quello di un Ceccherini messo in sordina da un Pieraccioni, piuttosto che quello di un Benigni sovrastato da Carlo Monni.
Proprio la morte recentissima di Carlo Monni mi ha fatto pensare a come Renzi non riconosce il valore di questa iconoclastia: omaggiando la salma del Monni al suo funerale in veste di sindaco, cosa ha recitato? “Lo ricordo come attore di cinema e teatro – sottolinea il sindaco – ma anche per il suo impegno nel sociale e nel territorio fiorentino. Negli ultimi anni ci incontravamo a volte al parco delle Cascine, dove lui andava a correre e che anch’io frequento nel tempo libero”. L’ultima cosa che mi sarebbe venuto in mente di Monni è il suo impegno nel sociale, magari sbagliando, ma avendo ben presente la sua critica alle delibere comunali,
il suo scetticismo sull’idea di una Toscana 2.0,
la sua irriducibilità a una figurina bonaria.
Per questo, se Renzi sarà un riferimento per la sinistra futura, gli chiederei di ripartire da questa forza, dalla radicalità del Monni e di quella “razza che l’è tra le più strane/ che bruchi semo nati / e bruchi si rimane. / Quella razza semo noi / l’è inutile far finta: / c’ha trombato la miseria / e semo rimasti incinta.”
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