“Figli dello stesso padre”, un romanzo che asfissia

Leggiamo la cinquina del Premio Strega

✦CR Christian Raimo ✧FL Francesco Longo

✦CR Francesco, riprendiamo. Siamo arrivati a Romana Petri, e ti posso dire – con Perissinotto mancante – che questa cinquina mi ha un po’ deluso. Ossia anche questo libro io non l’avrei veramente messo tra i cinque migliori libri dell’anno, ma nemmeno nei primi 500. Ripartirei dalla definizione che davi di letteratura nello scambio precedente su Sparaco. Quando sottolineavi l’importanza della reticenza. Non ti avevo confessato il mio accordo assoluto con quello che dicevi, ma lo faccio ora. Dopo aver letto Figli dello stesso padre.

Anche qui sì non posso non riconoscere a Petri in modo quasi preventivo una sua, come dire, professionalità nella scrittura – il saper tenere la pagina, la costruzione della struttura, etc… – ma devo riconoscere a me stesso però la fatica che ho fatto per arrivare alla fine di questa storia familiare, raccontata con tutto fuorché reticenza.

La storia è quella di due fratelli che, come appunto recita lo stesso titolo, sono Figli dello stesso padre. Diversi, odiatisi, lontani per decenni l’uno dall’altro, a un certo trovano un pretesto per reincontrarsi. Questo incrocio dà il la al romanzo e a Petri la scusa per raccontare in parallelo le due storie di questi due fratelli e della famiglia che fino a un certo punto è stata una.
Il punto è che in questo romanzo pieno di vicende e personaggi io non mi sono mai chiesto “Come andrà a finire?” “E poi che succederà?” Mai. Non mi sono appassionato. E il motivo semplice credo sia proprio nell’anti-reticenza di Petri.
Figli dello stesso padre trabocca di dettagli, di ridondanze, di spiegoni. Se un personaggio attraversa un corridoio, so tutto quello che c’è in quel corridoio. Vengo schiacciato, asfissiato dal mondo di Petri.

Facciamo subito degli esempi:

pag. 24 ❝ Poi, dopo aver aperto la portafinestra e gettato un’occhiata in strada, caricò la macchinetta e si mise seduto con lo sguardo rivolto alla fiammella aspettando di sentire il gorgoglio prima mansueto poi esasperato del caffè. Spegneva il gas sempre all’ultimo, quando il fornello erà già tutto schizzato di macchie marrone scuro. Una macchinetta da tre che beveva tutta da solo. La prima della giornata. Gli piaceva molto dolce e ci intingeva due biscotti, il primo all’inizio senza ancora averne bevuto nemmeno un sorso, il secondo a metà strada. Se qualcuno avesse idealmente diviso la quantità di caffè che si versava nella tazzina in due parti uguali, avrebbe potuto constatare che il secondo biscotto veniva inzuppato esattamente all’altezza di quella linea equatoriale che la divideva in due. E i biscotti erano sempre gli stessi, gli Oro Saiwa che mangiava anche sua madre. L’unica differenza era che il caffè lei se lo portava a letto e di biscotti ne mangiava quattro. Fosse venuto giù pure l’intero mondo, in quei momenti Germano sapeva che non doveva disturbare. Qualsiasi cosa fosse accaduta. Lei se ne stava nel buio, col busto sollevato a bere caffè e mangiare i suoi biscotti per poi rimettersi per almeno un quarto d’ora sotto le coperte prima di accendere la luce e aprire il libro che aveva sul comodino. Era tutto perfettamente calcolato, avrebbe letto il tempo di digerire liquidi e solidi per poi chiudere il libro e fare la sua mezz’ora di ginnastica. ❞

Sono io a trovare questo pezzo per esempio noioso e artificioso? Una madeleine al ralenti? Altro esempio pag. 90-92. Infanzia/adolescenza di uno dei due fratelli, Emilio, quello meno amato, quello che non ha dato a Emilio la possibilità di avere un padre. Anche a scuola i suoi compagni se la prendono con lui, ne ha fatto uno zimbello, lo chiamano Saputello, lo picchiano. Emilio si sfoga con la madre e le battute sono di questo tipo:

❝ «Loro fanno i cialtroni tutto il giorno, io invece studio tutto il giorno. E certe volte, credimi, non so se lo faccio per me o contro di loro. Perché li odio, li odio moltissimo. Non mi sono stati amici nemmeno per un giorno. Il mio amore per la scuola l’hanno trasformato in una risata alle mie spalle che ha contagiato tutta la classe. Anche quelli che non ce l’hanno con me si sono messi a ridere. E io perché dovrei aiutarli? Lo so da un pezzo che con loro rischio. Non è stata nemmeno la prima volta che mi hanno messo le mani addosso. Solo che le altre è andata meglio. Ma io non mollo, mamma. Sono stato già solo abbastanza. Ho una rabbia dentro…».
«Devi pensare al futuro, Emilio, al futuro, nemmeno al presente, solo al futuro».
«E così che hai fatto tu da quando sono nato?»
«Una madre non se lo può permettere, deve pensare anche al presente».
«Dimmi la verità, se tu potessi tornare indietro, così, come in un gioco. Ecco, ti dicono che puoi tornare indietro sapendo però tutto quello che è già stato. Sai come sono andate le cose, ma ti danno l’opportunità di farle andare diversamente. Mi faresti nascere lo stesso?»
«Che ti viene in mente?»
«Mi viene in mente che avresti avuto una vita più facile se non fossi nato io. Papà che ci abbandona, tu che hai dovuto fare tutto da sola. Dai, dimmi la verità. Mica dovresti uccidermi. Puoi solo tornare indietro e cambiare il corso delle cose. Tu ci speravi, no, che papà, una volta nato io ti sarebbe rimasto accanto?»
«Che c’entra, una donna innamorata lo spera». ❞

Che dici? Io trovo questo dialogo disarmante. È come se invece di esserci il testo, ci fosse solo il sottotesto. E mi sembra strano che Petri l’abbia lasciato così perché in alcuni momenti anche qui cerca di lavorare sul ritmo, spezzando le frasi, con le anafore, etc… Ma poi tutto ritorna a essere una pura didascalia, e invece dei personaggi io vedo delle idee di personaggi.

✧FL Mi sa che il talento è una coperta corta. Se la tiri da una parte l’altra si scopre. Walter Siti dovrebbe imparare da Simona Sparaco architettura e ritmo di una storia, lei dovrebbe apprendere da Siti lo spessore, la profondità, la natura simbolica del linguaggio letterario e l’attitudine di Siti a integrare il contesto delle storie con i protagonisti. Paolo Di Paolo potrebbe acquisire da Simona Sparaco la freschezza della lingua, mentre le dovrebbe consegnare una lista di letture di vecchi classici, trasmetterle un sano e necessario gusto per il “letterario”. Ognuno ha cose da insegnare e cose da imparare. Siti osa, Di Paolo evoca, Sparaco dà pugni nello stomaco al lettore.

Bisogna stare attenti a troppi fattori mentre si scrive: costruire una storia interessante (Sparaco), avere uno stile suggestivo (Di Paolo), saper assorbire la tradizione e rielaborarla (Siti). Poi ci sono i Grandi che hanno nella testa un’orchestra intera e sanno dosare tutto: sanno quando nei romanzi devono ingiallire le foglie, in quali gesti si manifesta la gelosia, il dolore, l’invidia, e raccontano gli anni che passano con una scrittura ritmica, metaforica, che genera livelli di senso e trasforma l’esperienza dei singoli in qualcosa di universale. Sanno fare tutto. Ma sono pochissimi.

Ti dico questo perché la lettura del romanzo di Romana Petri mi ha fatto riflettere ancora una volta su quanti fronti di guerra siano aperti nella stesura di un romanzo. E ho sentito, da lettore, quanto si fatica quando queste guerre sono perse. Ho faticato, mi sono annoiato da morire e alla fine, confesso, mi sono anche dovuto arrendere (ma non sarebbe bello se i critici ammettessero quando non riescono a finire un libro?). Lo dico, con dispiacere: non ce l’ho fatta.

Perché? Nella prima parte, a proposito di Emilio, uno dei due fratelli, si legge: Da qualche tempo stava pensando di scrivere un saggio sulla vita delle formiche. Ci aveva già lavorato un bel po’ e preso molti appunti. Era un argomento che lo affascinava da anni […] gli sembrava praticamente quasi inspiegabile che non fosse così per tutti». Ecco, io credo che per qualcuno questo romanzo possa essere affascinante, ma non è così per tutti. Può capitare, come succede, che qualcuno si appassioni alle formiche. Io ho arrancato su ogni frase, ogni pagina era una salita. Quando ho letto Simona Sparaco invece mi sono lasciato andare all’intrattenimento. Ho provato l’ebbrezza delle “pagine che volano”, quello scivolo che provano i lettori dei bestseller. Leggendo Di Paolo ho ceduto alle atmosfere. Qui invece mi sono sentito senza appigli, privo di ogni possibilità di stordimento. Venivo troppo istruito, sempre tenuto per mano. C’era l’autrice che mi voleva dire tutto, senza lasciare curiosità, desideri, senza lasciare che sia il lettore a riempire i vuoti. Forse, immagino, deve essere poco convinta che nei romanzi basta accennare, alludere, senza stare a sottolineare tutto. Se c’è bisogno di scrivere una frase come: «Se c’era una cosa che desiderava da sempre era che il fratello gli volesse bene, che lo risarcisse dell’affetto mancato del padre», vuol dire che qualcosa non va. Vuol dire che da soli non possiamo capirlo. Se c’è bisogno di dire tutto io mi defilo. Tu li chiami “spiegoni”, insomma ci siamo capiti, è questa cosa qui…

Insomma, Christian, al quarto libro sono crollato. Spero in Perissinotto. È pur sempre il libro che ha ricevuto più voti della Cinquina. Siamo quasi arrivati alla fine. Hai altro da aggiungere su questo libro?

✦CR Avrei molto da aggiungere, ma mi stoppo. Sono contento però che stiamo allargando il discorso a questioni che ovviamente non riguardano solo questi libri. Penso che il nodo centrale che sta venendo fuori, come sottotraccia, a questi nostri scambi è un deficit che patiamo entrambi: quello dell’educazione alla lettura. Mentre ragionavamo su questo libro e sugli altri mi sono andato spesso a vedere le recensioni che hanno accompagnato questi cinque libri e o gli altri degli stessi autori, per cercare una sponda o una dialettica. Raramente mi sono trovato di fronte a qualcosa di utile, mentre sono andato spesso a sbattere contro due modelli di critica impermeabili l’uno all’altro: il pezzo per addetti ai lavori e il pezzo promozionale. È veramente così difficile pensare un discorso sulla letteratura che sia al tempo stesso puntuale e popolare?

[La domanda su Holden e Gruppo 63 la rimando; quella piccola suspense dovuta solo all’urgenza di dover leggere con attenzione anche Perissinotto].

LXVII Premio Strega – La Cinquina dei finalisti

Serata Finale: 4 luglio 2013 (Roma, Villa Giulia)

Le colpe dei padri (Piemme) di Alessandro Perissinotto con voti 69
Resistere non serve a niente (Rizzoli) di Walter Siti con voti 66
Figli dello stesso padre (Longanesi) di Romana Petri con voti 49
Mandami tanta vita (Feltrinelli) di Paolo Di Paolo con voti 45
Nessuno sa di noi (Giunti) di Simona Sparaco con voti 36 

© Premio Strega. La cinquina dei finalisti. Romana Petri è al centro, con l’abito colorato

Twitter: @christianraimo@FrancescoLongo@LibriLonganesi

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