Il “Palazzo” sospeso aspettando il D-Day di Berlusconi

La bussola politica

Si apre la settimana decisiva per il governo. Dopo la sentenza che la Corte costituzionale emetterà domani decidendo il destino giudiziario di Silvio Berlusconi nel caso Mediaset, niente sarà lo stesso. In caso di condanna anche le larghe intese sarebbero condannate, forse non a una immediata deflagrazione ma certo, comunque, a un destino infausto. I Palazzi della politica attendono in un clima di assoluta incertezza, Palazzo Chigi e il Quirinale, Enrico Letta e Giorgio Napolitano, predispongono la macchina al botto, pensano che anche in caso di condanna del Cavaliere l’esecutivo reggerebbe ancora un po’, forse quel tanto che basterebbe per approvare una riforma della legge elettorale capace di riportare l’Italia al voto senza le distorsioni del porcellum. Ma chissà. Gli spazi sono risicatissimi. Nessuno è in grado di prevedere e ciascuno dei principali attori politici sulla scena vive queste ore trattenendo il fiato, coltivando un certo fatalismo, si inarcano infatti le spalle e si allargano le braccia, come dire: non dipende più da noi. «Ma la situazione economica e finanziaria sta peggiorando», dice un ministro, «un governo è necessario. Non possiamo andare avanti nell’incertezza». Il rischio è che il botto possa essere ancora più rumoroso di un semplice crollo della maggioranza, e travolgere il paese. Anche i partiti, Pdl e Pd, restano sospesi, lacerati al loro interno, divisi tra governativi e antigovernativi, eppure ancora tutti immobili, ognuno con lo sguardo che dovevano avere i soldati di Napoleone alla vigilia di Waterloo. Ciascuna delle fazioni in lotta aspetta l’esito della sentenza, e nessuno, davvero nessuno, azzarda manovre preventive, ogni mossa futura dipenderà da quello che sarà deciso dalla massima corte domani, o forse mercoledì (se i giudici dovessero optare per uno slittamento).

Berlusconi ha fatto intendere il suo pensiero, l’ex presidente del Consiglio è sicuro che la sentenza, se di condanna, avrà conseguenze sulla tenuta delle larghe intese: «Io andrei in prigione», ha detto il Cavaliere alludendo agli enormi effetti destabilizzanti che questa ipotesi avrebbe nei rapporti tra il Pdl e il Pd. Il partito di Berlusconi potrebbe anche restare sostanzialmente, per ragioni tattiche, fermo. Ma resterebbe in maggioranza il Pd, il partito in cui, tra gli altri agitati, milita anche quella Rosy Bindi che ha per prima sostenuto, già dalla condanna nel caso Ruby, il teorema del compromesso che infanga: «Come fa il Pd a governare con un uomo condannato per prostituzione minorile?». Già, come farebbe? I democratici hanno sospeso la battaglia pre congressuale, ma è una sospensione gonfia di livori, lo scontro aspetta solo di riaccendersi, di esplodere più violento che mai dopo la decisione della Cassazione. Nel Pd tutto si mescola ormai: la lotta per il potere interno al partito, la confusione sulle regole congressuali, le primarie, il ruolo del nuovo segretario e del candidato premier, il destino delle larghe intese. Tutto si tiene, in un marasma incontrollabile all’interno del quale fa capolino lo spettro spaventoso della scissione, parola che ancora nessuno pronuncia ad alta voce, ma che pure in tanti sussurrano e maneggiano con scarsa cautela, chi con lo sguardo acceso dal conflitto, chi con l’aria desolata e remissiva dei fatalisti. Beppe Grillo, che ha vissuto due settimane di recupero nella manovra politica, già si prepara a inserirsi come un grimaldello nelle tante contraddizioni e debolezze del centrosinistra: «Berlusconi è morto», dice, «è il Pd che lo tiene in vita». Mossa fin troppo chiara negli obiettivi. 

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