Italia, una piccola civiltà (letteraria?) al disastro

Leggiamo la cinquina del Premio Strega

✦CR Christian Raimo ✧FL Francesco Longo

✧FL Dei cinque libri che abbiamo letto, la mia pagina preferita in assoluto è la 155 dell’ultimo: Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto. Da quando ho trovato il camioncino Iveco di Walter Siti ho aspettato che in uno di questi libri si aprisse uno squarcio verso un mondo parallelo, impossibile, instabile, perché quel camioncino Iveco mi ricordava troppo la realtà. Perissinotto forse non sarà un grande scrittore ma è l’unico dei cinque autori che a un certo punto mi ha condotto sulla soglia della realtà e lì mi ha fatto affacciare in quel mondo simile al nostro ma governato da regole diverse: il mondo della letteratura, buona o mediocre che sia.

Un minimo di trama per spiegare come si arriva a quel momento di vertigine. Il protagonista si chiama Guido Marchisio. Dirigente di una multinazionale, ha lasciato la moglie per Carlotta, un’ex stagista della Moosbrugger (la sua multinazionale). Guido è impregnato di calvinismo, scrive con la Montblanc e ogni tanto gioca a tennis. Insomma, ha un suo equilibrio. A un certo punto accade una cosa minuscola e di nessun peso: viene scambiato per un’altra persona. Pensano che sia Ernesto Bolle invece lui è Guido. È esattamene da questo evento insignificante che si scatena l’inferno. Reazioni a catena, incontrollate, e tutto viene travolto. Sarà per «la sua fobia per le coincidenze», ma l’ipotesi che esista una persona che gli sia simile inietta in Guido una inquieta curiosità di sapere chi sia questo “sosia”, e con lui, in misura più sana, la curiosità contagia il lettore.

Tante volte ho visto questa struttura leggendo i romanzi. Si sposta un granello e nel giro di poche pagine ti ritrovi la valanga. Guido Marchisio inizia un’indagine totalmente gratuita, insensata, controproducente, fatta di dubbi e ricerche: «Fu quella la prima volta in cui concepì l’ipotesi di avere un fratello. Di più, un gemello». Ho visto tante volte i personaggi dei romanzi perdersi dietro a ossessioni che li rovinavano, che si tratti di un amore non corrisposto, della ricerca di un luogo della memoria o di un oggetto caro, li ho visti far saltare per aria la loro vita per il tarlo di una vendetta o per un progetto di nessun interesse.

La storia di Le colpe dei padri è un pretesto per raccontare per l’ennesima volta il tema del doppio, la volubilità dell’identità. Temi che la letteratura ha raccontato all’infinito e che non si consumano mai. Anzi, più vengono raccontati più ogni scrittore sembra fare luce su un aspetto che ancora non si era visto bene. Non so tu, Christian, ma io ci sono cascato. Mi sono incuriosito. Sono stato appresso alla ricerca di questo Ernesto, tra vecchi registri scolastici e interrogatori che finivano tutti così: «Mi dispiace, tutto quello che sapevo te l’ho detto».

C’è un mistero in questo libro. E non sappiamo neanche di preciso quale sia. È per questo che io non lo chiamerei “un giallo”, come invece avevo sentito dire. Ecco il giallo: «Forse la morte di Ernesto era legata a un mistero che lui doveva svelare?». E lo chiami giallo? Il libro è un crescendo di ansia («Un’inspiegabile angoscia si impadronì di lui») e di paranoia («gli parve che persino il Presidente della Repubblica, incorniciato sul muro alle spalle del questurino, lo guardasse con riprovazione»). E si procede tra minacce e sonniferi.

La storia passa da pagina 155, è lì che le certezze iniziano a crollare. È qui che Perissinotto mi ha convinto. Ho riconosciuto quel modo in cui la letteratura mette in crisi le nostre verità, pone degli interrogativi assurdi alla realtà, ne scuote le certezze e la fa traballare. Non è un libro senza difetti. Scorre ma è stile piatto. L’immaginario è troppo cinematografico («rimase a lungo, sotto una cascata bollente, proprio lui che, normalmente, la doccia la faceva quasi fredda»). Ma è un libro con una sua consapevolezza (implicitamente ed esplicitamente cita Conrad, Dostoevskij, Borges) e mentre monta dallo sfondo il terrorismo, l’autore non dimentica di mettere «una gelata in anticipo sulla stagione». A dirla tutta, c’è anche qui un Iveco. Ma è un Iveco Turbostar, un’autobotte della Shell. Ho detto quasi tutto.

✦CR Francesco, siamo arrivati alla fine. Per fortuna con Perissinotto ritrovo una possibilità di confronto più facile che con altri libri, probabilmente perché è molto chiaro il progetto di libro che ha cercato di costruire, e come hai mostrato tu, quali sono le cose riuscite e quali invece i limiti. Insomma, Perissinotto fa un patto molto onesto con il lettore. Forse anche per questo, sono riuscito a trovare in rete qualche buona analisi: prendi questa per esempio sul sito dell’Enciclopedia Treccani. Questa onestà probabilmente è dovuta al mestiere di Perissinotto: insegnare Teorie e Tecniche della scrittura gli avrà fatto acquisire una capacità di maneggiare la costruzione romanzesca in un modo forse in parte derivativo – come tu fai notare (il così letterario tema del doppio, riesplorato) – ma tanto consapevole da non poter essere apprezzato.

Ma il riconoscimento maggiore che do a Perissinotto è quello di aver dato vita a un personaggio interessante. Guido Marchisio – questo tagliatore di teste che a un certo punto impazzisce perché pensa che esista una specie di suo doppio, una sorta di coscienza congelata della sua infanzia che come in Dorian Gray lo accusa di tutto che avrebbe potuto diventare e non è diventato – è un personaggio riuscito, evidentemente emblematico di una crisi italiana, di un tradimento di alcune speranze di un intero Paese. È il personaggio che mi ha più affascinato insieme a Tommaso Aricò di Resistere non serve a niente. E te lo cito perché è difficile non metterli accanto. Il bankster e l’headhunter. Il broker senza scrupoli e il tagliatore di teste. Due facce della stessa economia diabolica. Anche Guido Marchisio, come Tommaso, sembra aver fatto un patto faustiano. Anche per lui il male del cinismo aziendale si trasforma in un male teologico.

Queste sono le ragioni per cui Le colpe dei padri mi è piaciuto. Le ragioni per cui poteva essere un libro migliore le hai enumerate tu: la questione dello stile. Tu dici piatto. E vorrei provare a capire cosa intendi. Perché per me sono un paio i difetti che trovo ricorsivi in molti romanzi italiani e anche in questo. La neutralizzazione della voce è il primo. Ci sono molte pagine in cui l’autore scompare a tal punto che il punto di vista stilistico è irriconoscibile. Per questo ti dicevo che amo le pagine di Siti, dove ogni dettaglio è filtrato da una voce che non si dice mai neutra, che coglie di ogni minimo gesto l’aspetto simbolico.
La seconda costante che non mi piace in molti romanzi italiani è il vizio di sostituire questa presenza interna allo stile con una presenza nella narrazione a mo’ di commento. Ti faccio degli esempi:

pag. 21 ❝ Via degli Ulivi, via degli Abeti, via delle Querce. Chi decide la toponomastica delle metropoli spesso ha il dono dell’ironia o del sarcasmo: a Torino la dolcezza di quei nomi d’albero era stata riservata alle strade del quartiere più degradato. ❞

oppure pag. 37: ❝ Per un attimo, Guido pensò al quartiere dov’era cresciuto e dove aveva abitato fino a qualche mese prima: una di quelle zone residenziali che la media borghesia torinese aveva edificato negli anni Settanta, lasciando che il centro crollasse sulla testa dei nuovi arrivati. ❞

Questi inserti è come se cambiassero di segno al romanzo, e lo facessero colorare di un tono troppo sociologico. È questo il rischio che corre Perissinotto, quello di voler inserire una voce civile. Se a questo rischio sfugge per gran parte della sua narrazione, quando ci cade è un doppio peccato proprio perché il lettore smette immediatamente la sua suspension of disbelief e ritorna anche lui l’acuto commentatore politico della società italiana. Il brutto lettore, il maleducato alla letteratura, quello interessato ai “temi attuali”. È stato bravo Perissinotto per esempio a sgusciare da questa trappola, alla riduzione del suo romanzo al tema della crisi dell’industria: in due tre interviste che ho sentito ribadisce il suo desiderio di raccontare l’Italia con degli strumenti letterari. E in questo senso, al di là degli esiti che dicevamo, non posso che stare dalla sua parte.

✧FL Su Perissinotto forse ci siamo lasciati un po’ andare. Ma sono contento di aver finito con un po’ di accordo, visto come eravamo partiti su Siti. E poi una soap di critica letteraria ha bisogno dell’happy end. Siamo stati due mestieranti, abbiamo letto tutto (io a dire il vero 4 libri e mezzo) e ne abbiamo scritto. Dalle reazioni che abbiamo avuto, la cosa più folle è che questo esercizio-chat sia risultato un’eccezione. Una cosa che dovrebbe essere la norma: leggere i libri e parlarne con sincerità. E infatti mi sono chiesto: ma se tutti i Grandi Critici che sfornano pamphlet sulla morte della critica avessero letto le cinquine dello Strega, non avrebbero fatto un servizio maggiore? Noi e i lettori siamo stanchi. E stasera c’è il verdetto. Comunque vada, ci siamo divertiti.

✦CR Ecco, fine. Ma ti devo rispondere in cauda alle tue questioni Holden e Gruppo ’63: ci può essere una buona scuola di scrittura, Holden o meno – e questo romanzo di Perissinotto è figlio di una lavorazione tecnica evidente: sulla struttura ad esempio, con una voce dell’autore che fuori dalla narrazione apre e chiude il libro, con un montaggio cinematografico, etc… – e ci può essere una buona critica letteraria figlia del gruppo ’63: l’antiromanzesco del libro di Trevi dell’anno scorso o del libro di Siti di quest’anno si sono nutriti di un’idea novecentesca che ancora per me ha un senso. Che la critica, la critica letteraria, la critica sociale, possa essere una delle poche ermeneutiche rimaste in piedi per non essere semplicemente degli esseri agiti, ma delle persone.

L’ultima cosa. Penso che qualcosa in comune questi libri ce l’abbiamo. Ed è il voler indagare l’ombra che il nostro Paese si porta appresso: sembra, l’Italia nei cinque libri della Cinquina, uno strano personaggio che sì ha venduto l’anima in qualche tempo, anni fa, e adesso fa i conti con quest’innocenza che sembra forse irrimediabilmente perduta. Sono cinque libri molto pieni di Ombra. Forse per questo mi hanno lasciato alla fine di questo tour de force di lettura, un senso di inquietudine, come se, senza saperlo, ci fosse una piccola civiltà al disastro, e io non potessi fuggire. 

LXVII Premio Strega – La Cinquina dei finalisti

Serata Finale: 4 luglio 2013 (Roma, Villa Giulia)

Le colpe dei padri (Piemme) di Alessandro Perissinotto con voti 69
Resistere non serve a niente (Rizzoli) di Walter Siti con voti 66
Figli dello stesso padre (Longanesi) di Romana Petri con voti 49
Mandami tanta vita (Feltrinelli) di Paolo Di Paolo con voti 45
Nessuno sa di noi (Giunti) di Simona Sparaco con voti 36 

© Premio Strega. La cinquina dei finalisti. Alessandro Perissinotto è il primo a sinistra

Twitter: @christianraimo@FrancescoLongo@edizpiemme

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