Il governo non controlla la spesa degli enti locali

Da Monti a Letta, il federalismo tradito

Il Consiglio dei ministri ha dato ieri disco verde al regolamento di attuazione della normativa sul federalismo fiscale, che uniforma i criteri con cui si redige il bilancio degli enti locali, secondo i criteri messi nero su bianco dalla Ragioneria generale dello Stato.

Un provvedimento molto tecnico, ma di fondamentale importanza in quanto la normativa attuale lascia ampi margini discrezionali nella formazione dei bilanci, sopratttutto previsionali, degli enti territoriali e in particolare delle Regioni. Le quali, con le Asl, rappresentano la principale voce di deficit (e quindi di debito) statale. Le aspettative sono alte: con regole uguali per tutti non solo tecnici e politici potrebbero migliorare la gestione della spesa pubblica, ma anche analisti e comuni cittadini districarsi meglio in una materia piuttosto complessa come la contabilità locale. E in definitiva controllare meglio l’operato dei propri amministratori. Di fatto, oggi lo Stato non sa quanto le Regioni e gli enti locali spendono.

Peccato che, a leggere il comunicato licenziato da Palazzo Chigi, il “piano dei conti integrato” secondo lo schema della Ragioneria generale «non si applica alle Regioni, agli enti locali e ai loro organismi». E dire che sono proprio le integrazioni al decreto legislativo 118 del 2011, che riforma la prima legge (42/2009) di omologazione dei sistemi contabili, ad aver incluso le Regioni. Tant’è che sono numerosi, e l’ultimo in ordine di tempo riguarda il Piemonte, gli interventi della Corte dei Conti sui loro bilanci. Autonomia in senso federalista è cosa ben diversa da arbitrarietà, come sostiene Luca Antonini, professore ordinario alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Padova, dal 2009 alla guida della Commissione tecnica per l’applicazione del federalismo fiscale. Dopo la gestione dell’emergenza del governo Monti, l’esecutivo Letta, data anche l’elevata presenza dei sindaci nei posti chiave, da Delrio a Zanonato, ha provato a ripartire con il federalismo fiscale. Incagliandosi subito. 

LEGGI ANCHE: L’ingloriosa scomparsa del federalismo italiano

Marco Causi (Pd), membro della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale ed economista all’Università di Roma Tre spiega a Linkiesta uno dei motivi principali: «Tra le altre, la novità del decreto 118 sta nell’obbligo di inserire i residui attivi per riscosso e non per accertato». «Un primo passo», osserva Causi, «verso la formazione di un bilancio per cassa». Il principio è quello della “competenza potenziata”, come la definisce la Ragioneria generale dello Stato: «Attualmente le obbligazioni giuridicamente perfezionate attive e passive sono imputate nell’esercizio finanziario in cui le obbligazioni sono perfezionate». Tuttavia «esistono norme, ma soprattutto prassi, di imputazione delle obbligazioni pluriennali agli esercizi successivi». Tradotto: i debiti li faccio oggi, ma li saldo domani. Gli obiettivi della legge 118, invece, sono: «conoscere i debiti effettivi delle amministrazioni pubbliche; evitare l’accertamento di entrate future e di impegni inesistenti; rafforzare la programmazione di bilancio; favorire la modulazione dei debiti secondo gli effettivi fabbisogni; avvicinare la competenza finanziaria a quella economica». 

Ad esempio i residui attivi sono i crediti iscritti a bilancio ma non ancora riscossi: multe, tasse sui rifiuti, e altri balzelli le cui previsioni sono di gran lunga più ottimiste rispetto alla realtà del riscosso riflessa dal bilancio consolidato. Secondo l’Aida Pa, la banca dati delle amministrazioni pubbliche, essi hanno toccato i 15,3 miliardi nel 2012. «Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco», dice il proverbio. Eppure i Comuni lungo lo Stivale fanno orecchie da mercante. E continuano a spendere senza avere i soldi per farlo. O al contrario, per effetto dei paletti stringenti del patto di stabilità (entrate superiori al 20% delle uscite), non possono farlo nquando hanno i fondi disponibili. 

LEGGI ANCHE: Il federalismo incompiuto, un peso record sulle tasche degli italiani

Il trucchetto usato è semplice: i debiti commerciali relativi a spesa in conto capitale (cioè per gli investimenti), sono contabilizzati secondo un criterio di “cassa” (la transazione viene registrata non quando la prestazione ha luogo, ma quando il pagamento viene effettuato). Ad esempio se un’azienda costruisce una strada per un Comune nel 2013, ma non viene pagata, il debito nei suoi confronti non risulta a bilancio fino a quando la fattura sarà saldato.

Al contrario, i debiti commerciali relativi a spesa corrente (come gli stipendi del pubblico impiego) sono contabilizzati secondo un criterio di “competenza” (la transazione viene registrata quando la prestazione ha luogo, non quando il pagamento viene effettuato) e quindi incrementano il deficit nell’anno in cui avviene la prestazione. Peccato che per coprirli si utilizzino previsioni di entrata che si rivelano sempre troppo ottimistiche: i residui attivi del Comune di Napoli sono pari al 220% delle entrate riscosse, quelli di Vibo Valentia al 186% Cosenza è al 185%, solo per citare le tre situazioni più difficili del Paese.

LEGGI ANCHE: Patto di stabilità, la gincana dei Comuni per salvarsi

Ragionare per cassa significa andare incontro a due problemi. Primo: a chi affidare il potere di riscossione. Fare a meno di Equitalia, per i Comuni, significa infatti andare a ingolfare ulteriormente i tribunali civili con ingiunzioni di pagamento. Secondo: come e quando pagare i fornitori. L’art. 194 del Tuel, che disciplina i crediti fuori bilancio, include nel loro novero tanto le passività pregresse quanto le maggiori spese che si verificano sulla competenza dell’ultimo bilancio o sui residui degli esercizi precedenti. Tuttavia, se si è obbligati (da inizio 2012) a pagare a 30 giorni (ad eccezione delle Asl), rimandare al domani diventa sempre più complicato. In generale, serve una buona dose di coraggio politico perché introdurre un principio di cassa significa de facto ridurre la spesa pubblica. Coraggio che non si può chiedere a un governo delle larghe intese, come dimostra la mancata introduzione dell’annunciata commissione bicamerale che dovrà occuparsi dell’attuazione della legge 42 sul federalismo fiscale e dell’individuazione dei nuovi “fabbisogni standard”, ovvero i parametri a cui ancorare il finanziamento delle spese fondamentali di Comuni e Province. La formazione della bicamerale è previsto per settembre. Sempre che ci sia ancora un governo. 

Twitter: @antoniovanuzzo

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter