I 260mila minori under 16 che lavorano in Italia

Lo studio di Cgil e Save The Children

Duecentosessantamila. È il numero dei lavoratori minorenni in Italia, il 5,2% dei ragazzi tra i 14 e i 15 anni. E circa 30mila di loro sono a rischio sfruttamento. Sono i dati di “Game over – Indagine sul lavoro minorile in Italia” di Cgil e Save The Children, secondo cui la maggior parte dei ragazzi italiani fa la sua prima esperienza di lavoro dopo i 13 anni (72%). E solo il 5% è straniero. Al crescere dell’età aumenta la quota di chi lavora: l’incidenza è minima prima degli 11 anni (0,3%), vicina al 3% tra gli 11-13enni e ha un picco tra i 14 e i 15 anni (il 18,4%).

«È interessante osservare come questa concentrazione delle esperienze di lavoro in età preadolescenziale possa essere messa in collegamento con il fenomeno degli Early school leavers che, come noto, in Italia ha un picco rispetto agli altri Paesi dell’Ue27», si legge nel rapporto. Il tasso di abbandono degli studi post obbligo e di mancata acquisizione di un titolo di studio secondario «fa pendant con la diffusione del lavoro minorile in particolar modo nelle età di passaggio dalla scuola media a quella superiore, transizione segnata frequentemente da difficoltà e insuccessi». 

Quasitre ragazzi su quattro lavorano per la famiglia, aiutando i genitori nelle loro attività professionali (41%), nel mondo delle piccole e piccolissime imprese a gestione familiare o nei lavori di casa (33%). In pochi (12,8%) collaborano nelle attività di lavoro di parenti e amici, oppure per altre persone (13,8%). 

I ragazzi lavorano soprattutto nel settore della ristorazione (18,7%) come baristi, camerieri, aiuti cuoco, aiuti in pasticceria o nei panifici; come commessi (14,7%) nei negozi o per gli ambulanti; come braccianti agricoli o aiutanti negli allevamenti (13,6%). Ci sono poi i giovani che lavorano come meccanici, parrucchieri (8,9%), babysitter (4%) o nei cantieri (1,5%). 

Oltre il 40% dei lavoratori minorenni è impegnato in lavori occasionali di brevissima durata (al massimo dieci giorni in un anno) o di breve durata (fino a un mese all’anno). Uno su quattro svolge attività regolari di lunga durata, mentre circa il 40% lavora qualche volta a settimana o al massimo due ore al giorno. Le esperienze più continuative sono quelle legate al settore della ristorazione, al lavoro di cura, alle attività artigianali e a quelle domestiche. 

I ragazzi lavorano soprattutto per aiutare le famiglie (nel 40% dei casi), molti (1 su 2) lo fanno per avere soldi propri o perché gli piace (26%). L’11% dei minori indica come un po’ pericoloso il lavoro che svolge. 

«Illavoro minorile è una questione sociale e quindi ha a che fare anche con una serie di macro-fattori», dicono dalla Cgil. «Da una parte la crisi attuale mette in seria difficoltà le famiglie, che quindi non potendo più rispondere in modo adeguato alle proprie esigenze possono spingere i figli a lavorare. Dalle interviste emerge che è aumentato il numero di famiglie dove si vive in condizioni difficili e che quindi anche il lavoro dei minori o la loro ricerca di un’occupazione sono divenute prassi consuete anche in contesti non toccati dalla povertà estrema». 

Ecco alcune risposte alle interviste: 

❝Ci troviamo in un periodo economico davvero difficile: le famiglie sono in seria difficoltà. Padri senza lavoro, madri che si arrangiano come possono. Non ci sono i soldi per permettere ai figli di studiare, figuriamoci per fare altro. Così alla fine si incoraggia il figlio a trovare un lavoretto, che per l’economia familiare significa tanto!❞ [operatore Servizi Sociali, Roma]

❝Non dobbiamo pensare che se un ragazzo o una ragazza lavorano allora è perché portano i soldi a casa. Vanno anche a lavorare per poi tenersi i soldi: se non hanno i soldi per andare a comprare la pizza, per avere le scarpe che vogliono o per fare uscire la fidanzatina, se non hanno i soldi perché la famiglia non ce l’ha, beh allora è normale
che si trovano da lavorare❞ [educatore Terzo Settore, Napoli] 

Nelle città del Nord e a Roma il fenomeno del lavoro minorile è meno percepito e anche meno visibile. La maggior parte dei minori italiani residente in queste zone svolge la propria attività nel settore del commercio (quindi nei bar e nella ristorazione in genere) e in qualche attività artigianale. Diversa la situazione per i minori di origine straniera: in questo caso si tratta di giovani che vanno dai 13 ai 16 anni e che lavorano per lo più nei mercati generali (questo è vero soprattutto per Roma, Milano e Torino), negli esercizi commerciali di parenti o in zone specifiche, come Prato, dove molti minori, in particolare di origine cinese, sono impiegati nelle attività di conceria delle pelli. 

I minori italiani sono quelli che maggiormente riescono a mantenere l’impegno scolastico, sebbene con scarsi risultati, durante le proprie esperienze di lavoro. I minorenni stranieri, invece, svolgono per lo più attività di lavoro prolungate nel tempo, anche pericolose. E in alcuni casi, illegali.

Al Sud la situazione è diversa. Dalle interviste e dai focus group condotti dalla Cgil in alcune aree urbane come Napoli, Bari, Reggio Calabria e Palermo emerge con chiarezza che la crisi e la conseguente difficoltà economica hanno diminuito l’ingresso o la permanenza dei minori nel mercato del lavoro. «Un minore quando cerca un lavoro sa che non andrà a imparare un mestiere, ma si mette a disposizione per fare qualsiasi cosa, l’importante è avere l’opportunità di guadagnare dei soldi», è una delle risposte.

@lidiabaratta
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Heysherif

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