Il lavoro in Italia: scarso, precario e sottopagato

La disoccupazione giovanile oltre il 40%

«L’anno peggiore della storia dell’economia italiana dal secondo dopoguerra». Sono le parole lapidarie, messe nero su bianco, nel Rapporto sul mercato del lavoro 2012-2013 del Consiglio nazionale economia e lavoro. La crisi, iniziata nel 2007, è al suo settimo anno. Nel frattempo, in Italia, sono stati persi 750mila posti di lavoro  Ma se l’occupazione fosse diminuita quanto il Pil, le perdite oggi sarebbero pari a un milione 870mila occupati. «Possiamo dire che la nostra occupazione tiene rispetto alla caduta del Pil, ma tiene a prezzo dell’impoverimento di molti lavoratori, dei sacrifici delle loro famiglie e della capacità di sopravvivenza delle imprese più tenaci», si legge nel rapporto. Per riportare il tasso di disoccupazione all’8 per cento entro il 2020, il tasso di crescita del Pil dovrebbe superare il 2 per cento all’anno negli anni a venire.

L’entità delle perdite occupazionali è stata contenuta in Italia grazie alla riduzione delle ore lavorate per occupato e alla flessione della produttività del lavoro. Dovute all’aumento del ricorso alla cassa integrazione guadagni (che assorbe gran parte delle politiche passive del lavoro nel nostro Paese), dalla riduzione delle ore di straordinario e, soprattutto, dall’aumento negli ultimi anni della diffusione del part-time. Una quota importante dei lavoratori part-time, però, è di tipo involontario: si tratta cioè di lavoratori che non hanno trovato un impiego a tempo pieno, pur desiderandolo. L’incidenza del part-time involontario sul totale degli occupati è superiore in Italia rispetto a quella degli altri Paesi europei. 

I dati Istat, aggiornati ad agosto 2013, parlano di 3 milioni 127mila disoccupati, con un aumento di 395mila unità rispetto all’anno precedente. Il tasso di disoccupazione si attesta quindi al 12,2 per cento. Ma tra i 15-24enni si arriva a un record storico: 40,1%, la percentuale più alta dal 1977. Persi anche molti posti di lavoro nel settore pubblico, con un meno 8 per cento rispetto al 2006.

Diminuisce invece il numero di inattivi tra i 15 e i 64 anni, attestandosi al 36,3 per cento. Questo avviene perché più persone si sono messe alla ricerca di lavoro, passando quindi nella fascia dei disoccupati o, i più fortunati, in quella degli occupati. Nonostante la recessione abbia condizionato la domanda di lavoro, in effetti, nel 2012 rispetto agli anni precedenti aumenta l’offerta di lavoro dopo un lungo periodo di stagnazione, aumento spiegato appunto dalla maggiore partecipazione. «L’incremento della forza lavoro osservato nel 2012 può essere collegato al crollo delle aspettative verificatosi con la crisi finanziaria e ai tentativi di ricerca di un sostegno al reddito familiare da parte di soggetti precedentemente non attivi», si spiega nel Rapporto. 

L’aumento della partecipazione ha coinvolto soprattutto le donne. Anche quelle che erano uscite dal mercato del lavoro tornano, o incominciano, a partecipare. Spesso però non trovano un’occupazione o, se la trovano, è (più frequentemente che per gli uomini) in professioni poco qualificate. E gli ambiti nei quali si realizza l’inserimento professionale delle donne restano quindi relativamente ristretti.

La quota di casalinghe che da un anno all’altro entrano nel mercato del lavoro è quasi raddoppiata tra il 2011 e il 2012, passando dal 4,3 al 7,2 per cento. Ma nonostante vi sia stata una crescente “attivazione”, non sempre è stato trovato sbocco in un’occupazione. Nel 2012 la disoccupazione femminile è aumentata del 28 per cento, raggiungendo quota 12,9% secondo i dati Istat aggiornati ad agosto 2013 (quella maschile è dell’11,7%). 

La situazione occupazionale più grave si presenta al Sud, la cui struttura produttiva, meno votata all’export e caratterizzata da una maggiore incidenza dell’edilizia, ha risentito in misura più intensa delle difficoltà della domanda interna. L’economia del Mezzogiorno ha registrato maggiori perdite di posti di lavoro, la maggiore caduta dei redditi, e una contrazione dei consumi più pronunciata rispetto al Nord.

I più colpiti dal deterioramento del mercato del lavoro sonoi giovani. Sempre più disponibili, in una situazione di scarsità delle opportunità, ad accettare lavori meno qualificati – con una crescita del fenomeno dell’overeducation – e spesso anche a condizioni sfavorevoli, con un aumento del sottoinquadramento. A ridursi è anche lo stipendio dei ragazzi all’ingresso del mercato del lavoro. Da qui l’aumento dei cosiddetti working poor, i lavoratori a basso salario. Scrivono dal Cnel: «Il lavoro è il fattore che più di altri consente agli individui di sfuggire alla povertà, ma la mancanza di qualificazione e gli impieghi precari sono un fattore che aumenta il rischio di percepire un basso salario. In molti casi, le posizioni lavorative a basso salario rappresentano per i giovani lavoratori, che accedono al mercato per la prima volta, una “porta di entrata” per acquisire esperienza di lavoro e transitare successivamente verso posizioni lavorative con maggiori garanzie e retribuzioni più elevate. Ciò nonostante, spesso le stesse si trasformano in “trappole della povertà”, senza che vi sia un percorso verso la stabilizzazione del rapporto di lavoro e una maggiore indipendenza economica».

La questione giovanile peggiora con l’allargamento della platea di giovani sospesi nel limbo del non studio e del non lavoro, i cosiddetti NEET, arrivati a 2 milioni 250 mila, pari al 23,9 per cento, circa un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni. Percentuale che presenta un’elevata differenziazione dal punto di vista territoriale: il tasso sfiora il 35 per cento al Sud, il doppio che nelle regioni del centro-Nord.

Come conseguenza del peggioramento della situazione giovanile, si verifica l’invecchiamento della forza lavoro. L’età media degli occupati nel 2012 ha raggiunto i 41,8 anni in media. Era di 39,8 anni nel 2005.

Twitter @lidiabaratta @Heysherif

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