Roma o Milano, la politica o la famiglia, la città degli affanni o quella degli affetti? Silvio Berlusconi ha richiesto l’affidamento ai servizi sociali, ha fissato la sua residenza a Roma, nella dimora di Palazzo Grazioli, ma al Tribunale ha pure indicato come domicilio la Villa di Arcore. Il Cavaliere dunque non ha scelto dove vivrà la sua prigionia, prende tempo, rimugina, soppesa vantaggi e svantaggi, in un fiaccante turbinio d’esitazione. Ma deve decidere, entro dicembre dovrà sciogliere tutti i grumi di dubbio, stabilire in quale delle sue case, e in quale città, passare un anno intero della sua vita. E dunque l’altra sera, a Villa San Martino, terminata la cena e trasferiti gli ospiti nel salotto, Berlusconi ha chiesto consiglio, ha ascoltato, ha manifestato le sue incertezze e i suoi rimpianti, “se solo avessi traslocato da Palazzo Grazioli, come volevo…”.
La scelta non dipende, ovviamente, soltanto dagli avvocati e dalla trama d’implicazioni legali e convenienze difensive che deriva dal vivere a Milano o a Roma. Il Cavaliere ha una spiccata sensibilità estetica, all’età di settantasette anni ha ormai fissato dei rigidi codici di gusto, e negli ultimi anni travagliati ha sviluppato un rapporto ambiguo e tormentato con la capitale d’Italia, città di cui non ama il dialetto grosso né la sonorità sbracata, città pigra ma inquieta, che gli ricorda le incombenze liturgiche e letargiche della politica, tutto ciò che lo infastidisce di più; persino gli appartamenti che occupa a via del Plebiscito, “qui non filtra un raggio di sole”, gli sono venuti a noia. La sua dimensione ideale sono i prati di moquette, la brezza marina di Villa Certosa, il calore riparato di Arcore, le villette a schiera della Brianza. È quella casa sua, un luogo che non s’identifica con i volti contratti di Angelino Alfano e Raffaele Fitto, con le preoccupazioni e i traffici del governo, del Quirinale, di Enrico Letta, ma con le facce amiche di Fedele Confalonieri ed Ennio Doris, dei figli e dei nipoti. Non è un dettaglio se anche le tragicamente note feste del Bunga Bunga avevano il loro proscenio nella villa di Arcore e non a Palazzo Grazioli. “Ma se mi allontano da Roma, quelli che combinano?”, si chiede il Cavaliere inquieto, lui che da sempre si fida d’una sola persona, cioè di sé stesso, ovviamente. E “quelli” sono gli uomini del Pdl, la sua corte litigiosa, squassata dall’invidia, lì dove balenano nell’ombra acuminati pugnali, dove l’odio non è più dissimulato come un tempo, ma viene a galla, ed è una sostanza vischiosa di cui sono ricoperti ormai tutti i corridoi e i muri del partito, uno stillicidio di male parole, di grugniti, di allusioni venefiche, di cupi silenzi, e ogni tanto l’esplosione furibonda, isterica, con pugni percossi sul tavolo, porte sbattute, Berlusconi che autoritario cerca di mettere pace. E non c’è angolo ombroso in cui non vengano scambiate parole di veleno: falchi contro colombe, ministeriali contro lealisti, Alfano contro Fitto, Verdini contro Quagliariello, Lupi contro Santanchè… “Posso davvero lasciarli soli?”, è il tormento del Cavaliere.
Alla fine degli anni Settanta, Berlusconi s’inventò questo slogan per vendere gli appartamenti oleografici che aveva fatto costruire a Milano Due, con i laghetti, i cigni, i ponticcioli: “Il silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio”. E quel quartiere di Segrate, squadrato, omologato e fiabesco com’è, condensa l’ideale piccolo borghese del Cavaliere, le villette tutte uguali d’una città di mezza provincia, i tramonti vinosi, gli spazi confortevoli ma anonimi, il prato tagliato di fresco, il silenzio mediocre, la tranquillità calligrafica e perfezionistica delle certezze quotidiane, un luogo dove nessuno mangia, nessuno fuma, nessuno si fa tagliare i capelli, nessuno spedisce cartoline. Figurarsi dunque se a Berlusconi può piacere Roma, la vista su un panorama di tetti fatiscenti, il selciato sempre sconnesso, il traffico sonoro e disordinato da metropoli messicana, l’indole pigra, animalesca e burocratica d’una città in cui il sulfureo si mischia con l’incenso. Quando nel 2008 George W. Bush venne in visita nella capitale, il Cavaliere fece di tutto per modificare il tragitto del corteo presidenziale verso Palazzo Chigi; voleva evitare che il suo amico e collega americano distinguesse gli orrendi graffiti che vandalizzano il percorso tra l’aeroporto e il centro della città: l’avrebbe voluto teletrasportare da Fiumicino direttamente ai fasti dei Fori Imperiali, “mi vergogno”, disse Berlusconi al capo della polizia. E insomma restare prigioniero a Roma per lui non è una prospettiva attraente, il Cavaliere non ama nemmeno Palazzo Grazioli, lo trova inadeguato, con la fermata dell’autobus piazzata lì di fronte, sul portone di casa, con le autoambulanze e le volanti della polizia che sfrecciano senza sosta su Via del Plebiscito, la puzza dei motorini, i clacson selvaggi, e quelle uggiose finestre del secondo piano, troppo basse, oppresse da palazzi troppo vicini, senza un filo di luce già nel pomeriggio. Da anni vagheggia un trasloco, ma poi osserva perplesso la montagna di mobilia e di personale umano da trasferire, e rinuncia. Ad Arcore è tutta un’altra storia, quella sì che è casa sua, con i quieti giardini, le linde strade, i radi ciclisti, i viali alberati, i pochi, sobri, abitanti e le lontane automobili, lì tutto è stranamente nitido, preciso, ben tenuto. E silenzioso. Il silenzio di Arcore. Ma più che l’assenza di rumori, il Cavaliere ad Arcore trova un clima nuovo, quasi improbabile, forse un aroma acustico, penetrante. Inoltre, lì non ci sono gli scocciatori, i cortigiani molesti e litigiosi, quelli che Berlusconi vorrebbe controllare, ma dai quali vorrebbe anche fuggire.
Un mestiere facchinesco e inutile. Il suo destino, quando è a Roma, gli appare così, quello d’essere inseguito da carte e postulanti, eredi famelici, cortigiani piagnucolosi, rompiscatole d’ogni sorta. Beghe e brighe, sempre. Grane. Carte, carte e chiacchiere, troppe chiacchiere, “tutto finisce in carta e chiacchiere”, commenta a se stesso, a voce alta, Berlusconi. La mattina gli ci vogliono tre quarti d’ora di lavoro solo per cominciare, per prendere visione, perché i suoi assistenti gli srotolino davanti i quaderni delle lamentele, le richieste di appuntamento, la lista delle telefonate ricevute e quelle da fare. La rassegna degli incartamenti lo abbatte, non ha niente a che vedere con l’attività imprenditoriale, una fatica che invece lo ha sempre divertito. E così si consegna al suo ruolo di Sovrano politico, di arbitro nel marasma del Pdl, con la faccia scontrosa e tediata di un ragazzino agli esami. Per lui a Roma c’è qualcosa nell’aria, qualcosa di sottile e di sconosciuto, una strana, insopportabile atmosfera, come una specie di odore diffuso: l’odore della prigionia. Esso invade la casa, altera persino il sapore dei cibi. Figurarsi dunque se il Cavaliere intende sul serio consegnarsi ai servizi sociali in questa sua burocratica prigione romana. “Mai”. Non ci pensa nemmeno, e agli amici lo confessa, con in volto l’espressione di chi misura l’ampiezza dello scampato pericolo, “io me ne sto qui, a casa, ad Arcore…”. Poi però si blocca d’un tratto, soppesa forse il caos politico che lo circonda, ed è come un frammento di dubbio, un imprendibile amletismo: “Ma se mi allontano, quelli che combinano?”.
Twitter: @SalvatoreMerlo