Enrico Letta, un premier con il condizionale

Il governo del si potrebbe fare

Enrico Letta non è un presidente del Consiglio, ma un condizionale, il suo governo vive in una dimensione ipotetica, “se fosse possibile abbasseremmo il carico fiscale”, “potremmo cancellare la Bossi-Fini”, “la legge di stabilità può essere modificata”, “si potrebbe riformare il sistema istituzionale”. Ed è vero che l’Italia in crisi avrebbe bisogno di un po’ di futuro (“abbasserò”, “cancellerò”, riformerò”), ovvero di un tempo e un modo pronti a trasformarsi nell’adorabile participio perfetto, che è ovviamente il tempo della buona politica, l’espressione di un successo, di una conquista, di una promessa mantenuta, “ho abbassato le tasse”, “ho cancellato la Bossi Fini”, “riformato la legge elettorale”.

Ma Enrico Letta funziona proprio perché è un condizionale. E nella paludosa, infelice Italia della grande coalizione, è la dimensione ipotetica di Letta, così inafferrabile, immateriale, eppure rassicurante come un miraggio, a tenerlo a galla e a garantirgli fortuna. Lui aderisce come un abito di sartoria a ogni torpida gobba parlamentare in un epoca in cui la capacità autonoma di governo, la sovranità nazionale, il controllo dei conti pubblici e tutto ciò che in passato determinava i compiti della classe politica, appare compresso, limitato, accessorio, subordinato ai regolamenti e alle magherie della politica europea. E dunque Enrico Letta è perfetto. Avvolgente, offre sempre la distensiva impressione di qualcosa che potrebbe essere fatto; e in lui l’azione politica o di governo resta così, placidamente sospesa nel tempo, in una dimensione immateriale e incorporea, un’azione in potenza, sempre in bilico, frutto di una riflessione così attenta da non esaurirsi mai. E infatti questa singolare stasi, questo energetico torpore dai tempi soffusi e dilatati, comunica persino serietà: potenza e mistero del condizionale.

certo Letta potrebbe anche scrollarsi la polvere di dosso, librarsi in volo, stupire tutti, abbandonare il condizionale per l’indicativo, confortare quanti ancora credono che questo giovane democristiano possa diventare il Merkel d’Italia, “fai qualcosa”, gli dicono, “almeno provaci”, lo implorano. Ma che ne sarebbe di lui se ci provasse? Può l’uomo del condizionale rinnegare se stesso e continuare ad avere successo? Forse no. E non solo perché il condizionale, oltre a essere l’anima di Letta, è anche lo spirito della grande coalizione, ma perché gli altri modi e tempi verbali della politica italiana sono già occupati, e da chi sa utilizzarli, dosarli con alchemica e furba pazienza. Matteo Renzi è tutto futuro, promesse e coriandoli, “vincerò le primarie e cambierò la sinistra”, “il governo farà quello che dirà il Pd”, “riformeremo e rimonteremo l’Italia”. Renzi è imbattibile sul campo inverificabile e suggestivo del futuro, come lo sono anche Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, ovviamente. E non per nulla il futuro è il tempo dei profeti, dei messia, dei maghi, dei rivoluzionari e degli imbroglioni.

A Letta è invece toccato in sorte solo un modo, il condizionale; inamabile, sonnacchioso, lento, cimiteriale. Ma è il suo, è la sua natura, la sua qualità e la sua forza. E in groppa al condizionale, Letta non ha rivali. Dunque il giovane premier non può che tenerselo stretto, il condizionale realizza una magica corrispondenza tra la grande coalizione, la grande palude, e questo leader così aderente allo spirito del suo tempo immobile, l’unico uomo capace di galleggiare nell’acquitrino sulla zattera di un’ipotesi, di un vorrei, di una subordinata.

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