Nei micidiali cunicoli serpeggianti sotto la vita di partito la consapevolezza del pericolo è acuta, percepita come un’ansia tetra. “Se Renzi diventa segretario, il Pd si sfascia”, mormora agli amici Massimo D’Alema. Il vecchio gatto coi baffi, l’ex presidente del Consiglio, lui che ha sempre nello sguardo come un sovraccarico di serietà, di supponenza, adesso, dopo aver seguito e presto abbandonato la strada di un accordo possibile con il giovane e arrembante Matteo Renzi, è tornato a osservare con altera preoccupazione questo giamburrasca spregiudicato e vincente, il sindaco ragazzino che da Michele Santoro, giovedì sera, s’è messo a dire che il sindacato andrebbe rifondato, che insomma la Cgil da cui proviene Guglielmo Epifani “è un’organizzazione di pensionati”, fino a spingersi oltre la linea di non ritorno (per la sinistra): “La riforma Fornero sul mercato del lavoro non era affatto male”.
Renzi si trova tra le mani un filo che, a saper tirare, può smagliare tutto un intreccio di amicizie, solidarietà, simboli e costumi in cui è intramata la stessa esistenza del Partito democratico e della sinistra intera: lui non ama i sindacati e nemmeno la Confindustria, elude la concertazione, prima decide poi forse chiede, sostiene l’eresia – per il Pd tradizionale – che l’agenda Giavazzi sia una cosa di sinistra. Dunque l’apparato del suo partito, e persino l’elettorato storico del Pd, cioè quei tanti iscritti che stanno consegnando la vittoria a Gianni Cuperlo nel canaio animatissimo dei congressi, guardano Renzi con stupore rincagnato, ostile, come un lanzichenecco precipitato a turbare la calma bizantina, le quiete abitudini del loro partito. “Ma questo che vuole? Le sue idee mi fanno venire i brividi”, ha detto qualche giorno fa l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, già sindacalista, solido e ortodosso deputato del Pd.
E dunque Renzi, così lontano dalla sinistra tradizionale, sta perdendo il congresso, ma si appresta, l’8 dicembre, a vincere le primarie, contende il consenso al suo stesso partito: perde la conta tra gli iscritti, è sconfitto nella liturgia polverosa e novecentesca delle tessere, ma vince tra gli elettori. E allora il dubbio non può che sgorgare violento, inesorabile, forse imprendibile, potrà resistere il Pd in questa contraddizione, e fino a che punto? Se lo chiede anche D’Alema, ed è la sua febbre, perché sotto le sue ferree certezze gli si è venuto agglomerando per smentite e liete sorprese, per abbagli, contrappassi, brucianti disinganni, una sorta di filosofico relativismo, di esistenziale margine da concedere all’errore: possiamo sopravvivere a Renzi, o forse non possiamo?
È uno di quegli interrogativi di cui lo stesso Renzi è consapevole da tempo. E d’altra parte, l’idea di conquistare l’anima della sinistra, per un po’, ha conservato agli occhi di Renzi una certa romantica e furba attrattiva, glielo consigliava persino la Repubblica, persino il direttore Ezio Mauro, che in riunione di redazione, sul sito del giornalone, aveva elogiato i tentativi renziani di rendersi più gradito alla sinistra vecchio tipo. E per un attimo, insomma, era sembrato che il magma di Renzi si fosse rappreso nella lava della normalità, che avesse perduto ogni vibrazione di minaccia. Anche D’Alema gli sorrideva, con malcelato sollievo, quando il sindaco aveva riposto nel cassetto la carica aggressiva confermando quel cinismo pragmatico di cui lo stesso D’Alema è antico cultore: la rottamazione, la rivoluzione generazionale, il rinnovamento modernista della sinistra, tutto ciò, come ogni formula idealistica, tende fatalmente a incrinarsi sbattendo contro gli aspetti prosaici, meschini della realtà. E insomma, Renzi paraculeggiava, lo ha fatto per mesi. Fino alla settimana scorsa, fino a una dirompente intervista su Il Messaggero piena di montismo, l’aspirante segretario del Pd si era affidato ciecamente al suo Yoram Gutgeld, deputato e consigliere, per temperare la sua politica economica un po’ troppo tendente al liberismo, per trovare la giusta spolverata di socialdemocrazia, quanto bastava per accarezzare nel verso giusto il morbido e convenzionale pelo old labour nei giorni che precedevano l’inizio dei congressi. Ma la trasformazione non era possibile, e l’operazione infatti non ha funzionato, gli iscritti del Pd hanno continuato a percepirlo, malgrado tutto, con un senso di urtante estraneità, tanto da averlo punito nella conta interna: vince Cuperlo.
Adesso, perso il congresso e vicine le primarie, il ragazzino spregiudicato e vincente è improvvisamente tornato alle sue origini di Rottamatore. Così Renzi lo ha spiegato ancora una volta l’altra sera da Santoro parlando a precipizio, spingendo fuori le parole come se il flusso potesse imprevedutamente arrestarsi e farlo affondare nelle sabbie del mutismo: l’agenda Giavazzi è una cosa di sinistra, i sindacati tutelano solo i pensionati, il mercato del lavoro va riformato (in sostanza secondo lo schema di Pietro Ichino). Eugenio Scalfari la chiama “mutazione antropologica” della sinistra, con felice assenza di enfasi, mentre D’Alema scuote la testa e si tormenta perché nel profilo del ragazzino intuisce le sembianze di un mostro incompatibile con la sinistra, con i suoi riflessi pavloviani, le sue abitudini, le sue liturgie, la sua cultura. Renzi vive la gioia calcolata di chi si sente preso per il gomito dalla buona sorte e si lascia fiduciosamente sospingere verso la gioiosa scadenza delle primarie, le vincerà. Ma poi del Pd cosa rimane?