«Nel dubbio, tira». Marco Belinelli deve aver preso sul serio il suggerimento di Nate Robinson, ex compagno testa matta a Chicago (ora a Denver) noto per aver infilato 23 punti nell’ultimo quarto di gara 4 contro i Brooklyn Nets, mancando di eguagliare per un maledetto punticino il record di un certo Michael Jordan. Di quella serie, chiusa 4-3 per i Bulls, rimane un’immagine:
costata una multa da 15mila dollari. Il diretto interessato ha detto ai microfoni di Sky Sport che sono stati soldi ben spesi, a differenza della sanzione da 800 dollari comminatagli da Golden State nell’anno da rookie per aver sforato di tre kg il peso forma. Colpa dei chocolate cookies. Quel fotogramma, subito rubato da uno scaltro rivenditore di auto segna l’inizio della seconda vita cestistica di Marco Belinelli da San Giovanni in Persiceto (BO).
Vinse Chicago, lui iscrisse a referto 24 punti e nel cuore la sicurezza di essere uscito dal girone infernale dei comprimari giramondo: Golden State, Toronto, New Orleans, Chicago. Il tutto mentre a bordo parquet sedeva comoda un’avvenente signorina di nome Rihanna. Mai nessun italiano è arrivato così in alto nei playoff, decisivo nelle due partite finali di una serie in bilico fino all’ultimo. In semifinale i Bulls si sono arresi ai “fighetti” di Miami, non senza darle di santa ragione. Belinelli compreso (vero Wade?). Guadagnandosi il rispetto di chi l’Italia a stento riesce a indicarla sul mappamondo.
Dimostrato di “avere le palle”, in questa stagione Beli le sta mettendo sul parquet ogni santa sera. Accasatosi in Texas alla corte di Tim Duncan, Tony Parker e soprattutto del suo ex compagno alla Virtus Manu Ginobili (chi scrive ricorda un’alley-oop inchiodata dall’argentino tra due lunghi contro la Snaidero Udine nel 2000), Belinelli oggi è il miglior tiratore da tre della lega con il 56% di media, sebbene il tabellino non gli renda giustizia, fermo a quota 9 punti in 20 minuti. Alla Gazzetta dello Sport ha detto di non pensarci su: «I tiri a volte entrano, a volte no. Ma qui c’è un sistema di gioco e ho dei compagni che sono in grado di farmi arrivare le palle giuste e di mettermi nelle migliori condizioni per fare del mio meglio».
«Squadra giusta, compagni giusti, allenatore giusto. E in più fa canestro! Il momento magico di Belinelli è tutto qui», commenta telegraficamente a Linkiesta Dan Peterson. Certo, se esci da un blocco granitico di Tim Duncan hai sempre un paio di metri di vantaggio sul marcatore, eppure fa effetto vedere il 10 della Nazionale guardare dall’alto in basso Step Curry, il miglior tiratore Nba della storia recente (la sua parabola è di 55 gradi, il che aumenta i ciof del 19%).
Forse perché Beli non è solo un tiratore. Il suo no look per Matt Bonner (qui sopra) è finito negli highlights settimanali della lega. Rarissimo trovarci un bianco, figurarsi un italiano. Non è tatuato, non ascolta il rap, non parla slang, non ha il suv con i cerchi in lega da 22”, ma il numero da playground gli riesce. Tanto quanto a loro. Succede in campo, non solo nei disegni di Marco Mazzarello e Andolfo Mirka, che nel numero 3002 di Topolino l’hanno immortalato nei panni di “Marco Bellicapelli”, assieme a “Mago” (Andrea Bargnani) e “Gallo” (Danilo Gallinari).
A 27 anni suonati e dopo 7 stagioni di alti e bassi, ora è lecito sognare. Federico Buffa, telecronista di Sky Sport malato per la palla a spicchi, azzarda una previsione: «Al netto degli infortuni e considerando che a Ovest la finale di conference sarà tra Oklahoma e San Antonio, Beli può arrivare a vincere il titolo di miglior sesto uomo dell’anno». Buffa, che lo conosce bene, lo descrive così: «È uno student of the game, direbbe Kobe Bryant. Ha deciso di rinunciare a un ingaggio più alto pur di andare a Chicago e giocare per la prima volta in un sistema di basket avanzato. Nella Nba ci sono 30 squadre, ma i sistemi avanzati non sono più di 10. Quando ci entri è come se ti svelassero i segreti di una setta». La cura di coach Tom Thibodeau, che nessuno ha mai visto sorridere in vita sua, ha funzionato così bene che Gregg Popovich – l’Alex Ferguson texano, in panchina dal ’96 e con 4 anelli all’attivo – a inizio stagione ha detto: «Sta entrando velocemente e in modo significativo nei nostri schemi». Aggiungendo una frase profetica: «Penso sia un giocatore estremamente sottovalutato». Osserva Buffa: «La base del gioco di San Antonio è il 4 in movimento, ma le nuances dell’attacco sono infinite. Popovich aggiorna il sistema bimestralmente. Non è come stare a Charlotte o Atlanta, che hanno solo 5 set offensivi di base». «Non è un caso», conclude, «che a San Antonio prendano giocatori provenienti da sistemi avanzati, come Marco e Boris Diaw».
D’altronde, bisogna essere ossessionati dal basket per riuscire a strappare a Popovich dei complimenti. Soprattutto se giochi in un ruolo iperinflazionato come la guardia tiratrice con una stazza nella media (1.96), ma minore esplosività. E dire che “Bello”, come lo chiamano a San Antonio, aveva iniziato subito con il piede giusto. Dai 25 punti contro il Dream Team nel 2007 ai mondiali nipponici, match che gli ha aperto le porte del draft, ai 37 in Summer League (seconda miglior prestazione nella storia) con la maglia di Golden State dopo una stagione da rookie in salita anche per colpa delle stravaganze di Don Nelson. Poi l’incolore parentesi di Toronto – scambiato più che altro per ragioni di marketing per farlo giocare con Bargnani vista la nutrita comunità italiana – e il trasferimento a New Orleans. Nella culla del jazz l’incontro che gli ha cambiato la vita: il senatore Chris Paul, architetto delle geometrie dei Clippers capace quest’anno di frantumare il record di tale Magic Johnson nelle prime 10 partite della stagione, viaggiando sempre sopra 20 punti e 10 assist. CP3 una volta gli ha detto: «Quando ti passo la palla mi aspetto che tu faccia canestro ogni volta». Una lezione che non ha dimenticato.