Gli squilibri esistono, ma non è colpa dell’Euro

Gli squilibri esistono, ma non è colpa dell'Euro

Sono almeno due i principali meccanismi di causa-effetto che i detrattori dell’Euro addossano alla moneta unica come colpa primordiale delle cattive performance dei paesi periferici della Ume: lo squilibrio nelle partite correnti e negli afflussi di capitale verificatosi prima della crisi economica, e il tardivo aggiustamento post-crisi causato da un euro troppo forte, che impedirebbe un più rapido aggiustamento ralativo della domanda estera e di quella interna.

Per cercare di illustare i due temi, è interessante confrontare Danimarca e Svezia. Il primo paese è membro dal 1999 del regime di tassi fissi a bada strettissima (Erm2, 2,5%), mentre il secondo ha optato per un regime di cambi variabili con inflation targeting da parte della Banca Centrale. Il confronto in termini empirici sembra avere un minimo di senso, in quanto i due paesi hanno in larga parte istituzioni economiche e politiche simili, nonché una cultura, con le dovute sfumature, in gran parte collimante. Le differenze di performance dovrebbero perciò risiedere, in buona parte o almeno a livello puramente speculativo, nelle diverse politiche di tassi di cambio adottate dai due paesi nordici.

Da un punto di vista della crescita economica, i due paesi hanno sperimentato dai primi anni 2000 due trend molto differenti, con la Svezia trainata da un più alta dinamica della produttività del lavoro. Sebbene da un punto di vista teorico non sia semplice trovare un nesso casuale diretto fra regime di tassi di cambio e produttività, una delle possibili spiegazioni potrebbe risiedere nella diversa dinamica dei capitali esteri affluiti nei due paesi, a partire dal 2004 e fino al debutto della crisi. Il saldo delle partite correnti ha inizato nel suddetto periodo a deteriorarsi in Danimarca, spinto da un afflusso di capitali che ha apprezzato il tasso di cambio reale, creato un bolla immobiliare (in 2 anni indice dei prezzi delle abitazioni è cresciuto del 45% in DNK, contro il 26% in SWE), e secondo la teoria menzionata, causato una allocazione sub-ottimale di capitale nei settori meno produttivi (fra cui appunto le costruzioni).

Le due curve della produttività che si divaricano più o meno nei tre anni menzionati sarebbero perciò almeno in parte causate da questo meccanismo di disequilibrio strutturale dei prezzi relativi, segnalato in parte anche dal deflatore del Pil danese che cresce più velocemente di quello svedese (gap visibile anche nel livello dei tassi di interesse di lungo periodo, la cui differenza, essendo entrambi i paesi in pratica risk free, è dovuta al differenziale atteso di inflazione).

La seconda critica sollevata alla moneta unica risiede nel limitare l’aggiustamento dei prezzi relativi necessario per recuparere competitività ai soli salari interni (cosiddetta svalutazine interna), relativamente al riallineamento più soft ottenibile tramite il deprezzamento reale del tasso di cambio. Con i dati in possesso per i due paesi questo meccanismo sembra abbastanza fragile. La Corona svedese si è deprezzata del 15% dall’inizio della crisi al punto di minimo della recessione, ma la pur più alta dinamica delle esportazioni non è stata controbilanciata da un minore apporto di importazioni che anzi sono cresciute in modo più che proporzionale, lasciando il saldo di partita corrente in pratica allo stesso livello della Danimarca che ha invece sperimentato nello stesso periodo un aprrezzamento reale del 14%. Insomma l’aggiustamento reale nel tasso di cambio non sembra essere stato un fattore determinante nella dinamica post-crisi. Nel caso, dai dati sembra emergere evidente il famoso effetto di credit crunch; pur in presenza di tassi bassissimi in entrambi i paesi la crescita degli investimenti in Danimarca è ampiamente al di sotto di quella svedese, particolarmente dal 2010 in avanti. Sensazione rafforzata dalla dinamica dei prezzi delle abitazioni, che dopo il boom in Danimarca sembrano in gran parte piatti se confrontati a una crescita sostenuta nella pur vicina Svezia.

Non è forse azzardato concludere che esistano effettivamente degli squilibri irrisolti nell’area monetaria unica, concentrati soprattutto nel periodo pre-crisi. L’unione bancaria e le altre politiche di integrazione dei mercati finanziari europei potranno forse aiutare nel sistemare un meccanismo di certo non perfetto. Eppure addossare alla moneta unica qualsiasi male, soprattutto in assenza di evidenze più forti sul nesso di causalità fra tassi di cambio e crescita della produttività che, come i grafici mostrano, è il driver principale della differente crescita di lungo periodo fra paesi, è un atto di semplificazione abbastanza azzardato.

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