C’è un odore rancido e strumentale nella difesa delle preferenze che diventano “risorsa democratica” nelle parole di Angelino Alfano, lui che sempre nominato non ha mai conquistato una preferenza, eccitato una piazza, strappato un voto al termine d’un comizio. Anche l’elogio della preferenza, della facoltà di scegliere, appunto di “preferire” un candidato anziché un altro, suona stonata in bocca a Rosy Bindi e Massimo D’Alema, che declama i principi cardine della sovranità popolare, ma sotto i baffi poi ammette: “Con le liste bloccate siamo morti, prende tutto Renzi”. L’apologia democratica, sulle labbra delle vecchie volpi diessine e dei giovani diversamente berlusconiani, assume dunque il carattere stantio della furbizia, è un mezzo e non un fine, il dispositivo dialettico per difendere interessi e garantirsi la sopravvivenza: furono loro gli autori del Porcellum e adesso celano dietro la parola “democrazia” un bluff da pokeristi, dicono “preferenze” ma intendono “trattiamo”, dicono “democrazia” ma intendono “tavola imbandita”.
Eppure se anche il nuovo principe Matteo Renzi, sicuro e padrone com’è, trova necessario dire che “faremo le primarie per scegliere i candidati”, allora s’intravvede l’oscuro profilo di un problema, si rivela come una sottile ammissione di colpa del ragazzino vincente, l’urgenza d’offrire una compensazione, il riflesso ben occultato d’un rimorso (“la sto facendo grossa”).
Le preferenze furono il simbolo del voto di scambio nel meridione d’Italia, ma le liste bloccate sono una sporcizia democratica, il trionfo delle oligarchie romane, e Renzi lo sa, lo ammette, lo capisce. E vien fatto di pensare che l’orribile clientelismo è pur sempre democratico. La lista bloccata è un prendere o lasciare, la designazione dei rappresentanti del popolo da parte di un capo, un solo uomo unto – lui sì – nel consenso, padrone del Parlamento, amministratore unico dei voti. E dunque il problema non è il sistema elettorale, non sono le preferenze, ma il paese che interpreta la legge elettorale, e che esprime le preferenze, cioè l’Italia che non sa guarire da sé stessa. E ha ragione Roberto D’Alimonte quando ricorda che “in Lombardia solo il 14 per cento degli elettori ha usato le preferenze alle ultime regionali, contro il 90 per cento degli elettori calabresi”. Ma sono distorti, eppure democratici, i pacchi di pasta distribuiti a Catania nel quartiere di San Cristoforo, e nella periferia di Napoli, come sono anomale ma democratiche anche le promesse di assunzione, i favori, le raccomandazioni…
“Camorra, ‘ndrangheta e mafia condizionano la vita politica e istituzionale. Lo fanno ai livelli più bassi, nei piccoli comuni, lo fanno con soldi e preferenze a livelli più alti”, si allarma Walter Veltroni. E Marianna Madia, che nella nuova segreteria di Renzi occupa il suo specialissimo piedistallo, si fa pensosa e preoccupata: “La preferenza non è il modo migliore di impostare il rapporto tra eletto ed elettore, perché sono possibili anche degenerazioni clientelari come dimostra il caso di Fiorito”. Allora forse il Porcellum, o l’uninominale, hanno eliminato dall’Italia corruzione e malcostume? Allora forse, con il vecchio regime della proporzionale, è anche caduto quello delle tangenti e delle clientele? Parrebbe di no. Persino alle primarie del Pd si ricordano file di cinesi, di pachistani, di romeni… E si capisce dunque che la questione è eterna, forse imprendibile sin dai tempi della Roma antica, quando il candidato indossava la toga bianca, e senza tasche, affinché non potesse portare con sé soldi per comperarsi i voti. “Per l’elettore il voto è una merce”, fa dire Bertolt Brecht al suo Giulio Cesare, signore del clientelismo, indebitato, amato e potente, spinto all’impresa delle guerre galliche dalla folla affamata dei suoi clientes adoranti.
L’Italia contemporanea ha conosciuto Remo Gaspari, che fu quindici volte ministro e che in Abruzzo chiamavano il califfo o il duca o più sobriamente eccellenza. E poi c’erano i mister “100 mila preferenze” come Alfredo Vito, il proconsole diccì che contendeva l’hinterland napoletano a Francesco Patriarca detto “Don Ciccio a Promessa”: 154.474 preferenze nel 1987, 104.532 nel 1992 quando già era passata la preferenza unica. E senza un’apparizione televisiva. Senza un manifesto. Solo rapporti personali. Come Totò Cuffaro, che teneva sulla scrivania uno schedario con migliaia di nomi ma in realtà sapeva tutto a memoria: “La mia porta è sempre aperta”. Nessuno li rimpiange, ma erano eletti per volontà popolare, a differenza dei cento parlamentari condannati, imputati, indagati o prescritti che hanno animato l’allegra e oligarchica vita ai tempi della lista bloccata. Sempre meglio Achille Lauro, che distribuiva centinaia di paia di scarpe per le strade di Napoli, che uno qualsiasi dei catapultati in Parlamento per volontà carismatica di un leader. “La preferenza e il voto di scambio sono una cosa sola”, dice Davide Faraone, e così il professor D’Alimonte si spinge all’elogio delle liste bloccate, “possono essere usate molto bene”. Ma c’è persino di meglio. Il migliore modo per liberarsi dalla piaga del voto di scambio nell’Italia tormentata dal malcostume lo trovò Mussolini: soppresse le elezioni. Ecco fatto. Problema risolto.